Nella speranzosa utopia UE di un “Nuovo Bauhaus Europeo” non va dimenticata la matrice esistenziale e spirituale di una Scuola di design e architettura che fu anche un grande laboratorio di sperimentazione artistica.


“Ma dunque per lei il Bauhaus è attuale o no? Per un certo periodo ho pensato che mantenesse una sua attualità, ma oggi non ne sono più convinto. Conservo l’ammirazione di sempre per quell’esperienza, anche perché nata dal contributo di una generazione di giovani che avevano tutti, con poche eccezioni, tra i venticinque e i trent’anni. Ciò malgrado non possiamo pensare che i metodi del Bauhaus possano essere una soluzione ai problemi che si pongono oggi ai progettisti.”

Stefano Casciani, intervista con Tomás Maldonado, in domus 935, aprile 2010

In un’intervista di non moltissimi anni fa con Maldonado, discutevamo della sua visione della scuola di Gropius, Meyer e Mies van der Rohe (gli storici direttori del Bauhaus modernista). Ne risultava la sua preferenza per il periodo della direzione di Hannes Meyer, perché vedeva la posizione di Gropius come “formalista, grazie agli interventi di van Doesburg”, l’eclettico artista e polemista olandese che senza avervi mai insegnato esercitò comunque una forte influenza sul Bauhaus. La conclusione di Maldonado era che, malgrado fino agli anni 60 egli stesso sostenesse una possibile attualità del Bauhaus, invitato in Germania nel 2009 per il 90simo della Scuola, aveva tenuto una conferenza dove dimostrava proprio il contrario.

Karl Hubbuch, “Zweimal Hilde II” (Doppio ritratto di Hilde)”, 1929 ca.Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid. Hilde Isai Hubbuch  – fotografa al Bauhaus – è ritratta in piedi e seduta su una sedia di Marcel Breuer.

Se anche un intellettuale acuto e dialettico come Tomás ha potuto cambiare così radicalmente opinione, sicuramente il Bauhaus – con le sue vicende così complesse di persone e idee – pone e porrà sempre in futuro una delle questioni più importanti del progetto: dove finisce l’arte e dove inizia il design, almeno come lo intendiamo dopo un secolo di sua storia? Per questo sembra più che altro una svista quella dei burocrati di Bruxelles che hanno coniato il termine “New European Bauhaus” per definire un programma tanto ambizioso quanto confuso, che mescola una generica filosofia “verde”, ricerca sui modi di vivere, aspirazioni estetiche non meglio definite. Al di là dell’opportunità politica di intitolare un programma Europeo con un episodio della cultura tedesca, non si vede come questo programma – se non tanto per darsi un titolo risonante – potrebbe essere espressione delle tantissime realtà e tradizioni del design che ogni paese europeo già possiede e, per quanto possibile, cerca di conservare: come avviene al CCI del Centre Pompidou, al Design Museum di Londra, o al nuovissimo Museo Adi Compasso d’Oro di Milano.

E soprattutto la vera lezione del Bauhaus sono e restano le sue opere, gli oggetti, il metodo di insegnamento e la straordinaria, irripetibile qualità delle persone che lo hanno fatto. Se al tempo di Weimar e Dessau i migliori artisti e artiste dell’avanguardia – da Klee a Kandinsky, da Marcel Breuer a Marianne Brandt, da Gunta Stolzl a Anni Albers – hanno saputo convergere e vivere, letteralmente, in una stessa realtà, oggi questo non è più pensabile e soprattutto possibile, Meglio guardare con apertura dialettica e attenzione critica a quel che il Bauhaus è stato, e trarne qualche ispirazione etica ed estetica nel duro lavoro quotidiano dell’autore, artista, designer o architetto che egli sia.

BAUHAUS: 1919-1933
(estratto da Abitare n. 358, 1996)

Per un intellettuale contemporaneo interessato ai problemi del progetto tentare un discorso sul Bauhaus equivale allo sforzo del teologo che cerchi una nuova interpretazione dei sacri testi: su entrambi poggia il peso insopportabile di verità rivelate, superstizioni e anatemi lanciati negli anni dentro e fuori dalla gerarchia. La Scuola di Gropius, riuscendo nell’intento di passare alla storia ha infatti segnato anche il proprio destino: essere eternamente travisata da una critica al servizio permanente dell’establishment.

Gunta Stölzl, direttrice del laboratorio di tessitura al Bauhaus di Dessau: tesserino della Scuola

Così i Bauhausler e il loro lavoro sono stati di volta in volta eccentrici, snob, bolscevichi, presunti anticipatori dell’International Style e dell’industrial design più servili al sistema di produzione capitalista – fino al clima da basso impero postmoderno, che ne ha fatto il bersaglio di attacchi quali assolutisti e sciagurati fautori di una standardizzazione del mondo degli oggetti; come, ad esempio, negli isterici appunti dello scrittore americano Tom Wolfe, grande talento sprecato, che si è spinto a dare al suo pamphlet contro il design il titolo From Bauhaus to your house.

Gunta Stölzl, direttrice del laboratorio di tessitura al Bauhaus di Dessau: “Tappeto Rosso Verde” ,1927/28

Qual’è la ragione di tanta acrimonia verso un’esperienza artistica tra le più belle, dopo tutto, di questo secolo? L’impresa affrontata da Marco De Michelis e Agnes Kohlmeyer con la mostra presentata alla Fondazione Mazzotta e il suo catalogo*, dà una possibile risposta a questa domanda e a molte altre, fino ad assumere autentico valore di una vulgata incredibilmente attraente anche per gli addetti ai lavori. Il punto centrale colto in questo progetto espositivo, evidente fin nel sottotitolo dedicato a quattro maestri (due per disciplina), è la grande intuizione dello stesso Gropius: ‘campionare’ le voci dell’avanguardia artistica del suo tempo e scatenarle in uno sfrenato rap progettuale in cui tutto viene detto, scritto e disegnato sulla possibile natura positiva della costruzione dell’universo.

“Atelier Gropius”,  installazione ironica con i collaboratori di Walter Gropius (tra gli altri Kurt Stolp, Hermann Bunzel et Hermann Trinkaus), 1927/28 , photo Edmund Collein

Nulla in questo dell’aggressività guerrafondaia dei futuristi italiani, niente dello schematismo macchinistico (machine à habiter) di Le Corbusier o della utopia dei produttivisti sovietici passati in fretta all’oblio o al gulag: ma una grande, calma, lucida e fin razionale speranza nell’incontro tra arte e industria, tra invenzione costruttiva e necessità esistenziali e spirituali. Proprio questa possibile spiritualità del progetto, negata per quasi un secolo e oggi debolmente tornata a farsi sentire, riemerge leggera, per chi voglia distinguerla, nella ricostruzione attuata nei modesti spazi della Fondazione Mazzotta, qui riabilitati solo perché risplendenti dell’intelligenza critica degli artisti. Si sorride nel vedere per la prima volta i disegni di Farkas Molnar dedicati alla nascita della nuova architettura: un
corpo femminile, quello di El (moglie di George) Muche, che dà alla luce schematiche forme costruttive. Di fronte alla vetrina che raccoglie gli oggetti del laboratorio di ceramica, simulacri per funzioni misteriche, si è agitati dall’odierno disperato affannarsi a ricercare forme nuove per materiali eterni.

Farkas Molnár, ritratto di Georg e El Muche, con la “Haus am Horn”, prima casa sperimentale del Bauhaus, 1923

Ugualmente però si resta interdetti di fronte al bizzarro tentativo di riprodurre in mostra la Torre del fuoco di Itten, poco più che uno schizzo e un modello all’epoca. Perché allora non riproporre (in piazza, a Milano!) il Monumento ai Caduti di Marzo, grandiosa costruzione scultorea – qui esposta nei disegni – con cui Gropius anticipò l’odierno immaginario decostruttivista? Eppure anche queste perplessità partigiane vengono sciolte dall’attrazione magnetica verso il nucleo della mostra, le tracce dell’attività didattica del Bauhaus. Nei religiosi, rivelatori studi alla Dürer su poveri oggetti si comprende l’importanza sublime data nella Scuola alla comprensione della struttura materiale del mondo, così spesso ignota alle nuove generazioni di progettisti. Analisi cromatiche e morfologiche parlano di varietà invece che di standard.

Lou Scheper Berkenkamp, “Lettera Adriatica” a Maria Rasch, 1927/28:  designer del colore, già studente del Bauhaus, moglie del maestro di pittura murale Dirk Scheper, lavora con Oskar Schlemmer all’opera “Balletto Triadico”

Le sghignazzanti, scompigliate figure di maestri e studenti abbracciati in danze, spettacoli e divertimenti, i quadri-appunti di Karl Hubbuch che ritraggono i mobili di Bruer nel quotidiano vissuto dell’artista e della moglie Tilde, i disegni di macchine, scene e marionette per il teatro, rimandano l’idea di un’ingenua, felice stagione per la gaia scienza della creazione. Muti e commossi, si legge la brevissima didascalia della foto simultanea di Lotte Beese (poi moglie di Mart Stam), che ritrae contemporaneamente gli atelier di Dessau e il giovane volto di Otti Berger: allieva del Bauhaus, ebrea, nata nel 1898, uccisa nel campo di concentramento di Auschwitz nel 1944.


*tradotto in italiano con il titolo “Maledetti architetti”
** BAUHAUS 1919-1933 Da Klee a Kandinsky, da Gropius a Mies van der Rohe, a cura di Marco De
Michelis e Agnes Kohlmeyer, Mazzotta Editore, Milano 1996


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