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Milano si è ormai affermata come capitale indiscussa del design internazionale; ovunque fioriscono siti, blog, riviste e tutorial su come riciclare, realizzare, dove acquistare oggetti di design, quali mostre sulle infinite variazioni sul tema sono da non perdere.

E si finisce così per farsi “risucchiare” dal vortice generato dalla design week e cadere vittime inermi dell’incantesimo  “Dal design accattivante”: Ma cosa si nasconde in realtà dietro questa formula? Potrebbe celarsi un’insidia: il design è concepito per persuaderci.

Frequentando il mondo del design ed essendo appassionata studiosa di filosofia mi sono chiesta se esistesse un ramo di questa scienza che si occupasse del design in quanto disciplina autonoma ed indipendente. Ho incontrato così Vilélm Flusser, che nella sua ragionata dissertazione, poneva una domanda ancora più pungente: è possibile parlare oggi di ” filosofia del design”? Da dove partire per seguire una linea di riflessione scevra da condizionamenti e manipolazioni mediatiche? 

L’oggetto di design affascina e agisce come un “simulatore di sovranità”, restituendo un potere mancante a chi ne è attratto ossia il potere di impossessarsi di qualcosa di cui s’ignora l’intimo funzionamento. Come un” traghettatore” di significati, il design è la bellezza che maggiormente riluce nel sensibile, un sapere talmente superficiale da divenire profondo.

La filosofia ci ha, da sempre, posto di fronte a degli interrogativi. Perlopiù metafisici. Questo acuto saggio in “miniatura” ci spinge a riflettere su una materia intangibile, in cui siamo immersi, che vive intorno a noi, condividendo la nostra quotidianità: il design ci circonda, ci assedia, senza quasi farsi notare.

Filosofia del design

Nella mia esperienza il libro di Flusser rappresenta uno strumento per aiutarci ad analizzare le sue diverse forme, dal micro al macro, e leggere il design in una chiave interpretativa di grande originalità. Per dirla con sue parole dovremmo guardare al design come all’altra faccia dello specchio. In un articolo del 1965 l’autore usa la metafora dello specchio per sottolineare come, nel corso della storia, tutti si siano interessati alla sua faccia riflettente, trascurando l’altra faccia, quella opaca, coperta di nitrato d’argento, che permette la formazione dell’immagine.

Solo uno studioso curioso e versatile, indagatore del linguaggio e dei media (nato a Praga da una famiglia di intellettuali ebrei, emigrato in Brasile è poi tornato in Europa negli anni di profonda trasformazione della società e dei suoi modelli comunicativi) poteva immaginare il “design allo specchio” ed interrogarsi sulla valenza filosofica e sul suo ruolo nel mondo – prendendone le distanze con ironia e profetizzando temi di là da venire.

Costruito come una raccolta di saggi snelli e affusolati, che rimandano ad una serie di considerazioni di tipo fenomenologico su oggetti quotidiani e sull’ambiente in cui si collocano, ma anche sul modo in cui “colpiscono” i nostri sensi e la nostra coscienza. Flusser mette in scena una fitta rete di connessioni e contaminazioni, teoriche e metodologiche, snodo cruciale d’incontro tra arte e scienza, economia e politica, teologia e tecnologia. La riflessione sul design abbraccia una cornucopia di temi ed oggetti che non disdegna la cibernetica, l’etica industriale, le religioni sciamaniche, la guerra e la ceramica (i vasi sono i suoi manufatti simbolici prediletti), per passare poi alle futuribili case senza tetto (una manna per gli architetti contemporanei) e utopie sottomarine da fare invidia a 10.000 leghe sotto i mari.

Il design -coniugato in prima persona- di verbo che infonde forma alle cose, ha prodotto in passato (ma il presente è sotto i nostri occhi e il futuro inciso nella punta di matite high-tech), strumenti perfettibili di distruzione di massa così come ha ha saputo elevarsi sulla vetta di opera d’arte. La sua capacità evolutiva e di adattamento, se così si può chiamare, dischiude croce e delizie, pericoli per il futuro e salvezza della “specie”, lasciando incorrotte le infinite possibilità per l’uomo che verrà.

La profezia, secondo l’autore, si compirà in un futuro a misura di design, una grande opportunità stretta nel pugno di un uomo, una mano tesa a dar forma alle cos. Questa provocatoria tesi si srotola come prezioso papiro attraverso l’architettura dei brevi saggi, impreziositi da acume critico e apparente semplicità. Un filo d’Arianna per districarsi nel complesso labirinto della quotidianità materiale e salire su un alto faro solitario ed osservare da lì gli scenari possibili del mondo post-moderno: il design è buono o cattivo? Tutto dipende, ahimè, dall’intenzione.

In origine, la materia confluiva nella parola greca hyle (legno), la forma morphé indicava l’amorfo; il mondo dei fenomeni che percepiamo con i nostri sensi è un caos amorfo che occulta, tradisce le forme eterne ed universali al dà di esso, che possono essere svelate invece attraverso la teoria e la ratio. La materia amorfa riempie quindi le forme per poi “ritirarsi” nuovamente nel mondo delle idee. Flusser non appoggia il dualismo materiale/immateriale, e sostituisce a questo il rapporto diadico tra materia ed energia (gas e caos sono la stessa parola) e più che di cultura “immateriale”, il Nostro preferisce parlare di “alta energia”.

Il libro si apre con una puntuale indagine etimologica sulla parola design. In inglese è sostantivo per “progetto”, “intenzione”, “piano”, “scopo”, “complotto”, “figura”, mentre come verbo (to design) assume l’accezione di “architettare”, “ideare”, “organizzare”, “simulare”, “agire in modo strategico”.

Se indaghiamo, invece, la radice latina signum, segno, ci avviciniamo etimologicamente alla sua duplice identità di “disegno” (ma anche designare) portatore da un lato di intenzione e attività progettuale/creativa dall’altra implica l’applicazione logico-scientifica sulla “pelle” del prodotto. Curiosa l’associazione che ne viene fatta con idee quali astuzia, inganno e simulazione, insieme ai termini significativi di macchina, macchinario e di meccanica.

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Ci dobbiamo rassegnare or dunque alla complessità della realtà, all’interconnessione, alla frammentazione e anche il design mostra tutti i segni di questo oscuro male; è diventato sempre più imperscrutabile e pervasivo, infestante come alcune piante che crescono contro la nostra volontà e si intrecciano ad altre di cui vorremmo godere i frutti! Non sono molti coloro che posseggono gli strumenti per saperlo decifrare e collocarlo nel giusto ordine delle cose, in relazione alla moltitudine di arti che innerva: economia, industria, arte, scienza, tecnologia, comunicazione, senza tralasciare l’intera società, la politica, l’estetica e perfino l’etica.

Le categorie ormai consunte di di forma e di funzione non bastano a contenerlo e segnare il passo verso il futuro, una realtà transeunte che sfugge al nostro controllo e alle formule pre-costituite. Le forme sono contenitori per i fenomeni materiali, sono possibili modelli (siano essi geometrici o matematici). Il design, nel suo essere espressione culturale, in-forma la materia, la rende visibile e appariscente; solo così la materia può apparire. Pertanto l’approccio materiale ed immateriale possono coesistere in immagini di sintesi, siamo già nell’era post-materiale.

Non è più possibile pensare al design come ad una disciplina autonoma, isolata, senza pensare alla “fotografia” più ampia dei problemi che essa solleva ed alle diverse competenze che essa richiede. Il discorso sul design è diventato estremamente complesso, tanto da richieder l’intervento di critici, filosofi, teorici della cultura in grado di interrogarsi sulla sua natura e sulla sua destinazione futura. I designer non sono più sufficienti.

Lettera 22 (Olivetti) – Esposta al MoMa di New York

Scavare la terra nuda che ricopre appena le radici del design, nel senso più maturo del termine, porta in superficie questioni che volteggiano più in alto di noi; rimettendo in gioco la scienza delle “le cose ultime” esistenziale e metafisica, legata a doppio filo al nostro essere nel mondo – non in qualità di spettatori passivi, ma attori protagonisti dotati di capacità di agire sulle cose e sulla realtà che ci circonda, modificandone inesorabilmente la forma. Il designer tenta il “salto mortale” per raggiungere un livello superiore – sembra voler incarnare la figura dello stregone e inventore – avvicinandosi pericolosamente al modello di Creatore; il secondo occhio dell’anima guarda all’eternità, al futuro (il suo sguardo si spinge ad osservare le forme nella loro eternità pur compiendo, in contemporanea, un’azione di sintesi e manipolazione di quelle stesse forme con l’ausilio, all’occorrenza, di macchinari o robot: oggi parleremmo caso mai di intelligenze artificiali).

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“Sforniamo mondi in qualsiasi forma desideriamo e lo facciamo bene almeno quanto il Creatore nei sei famosissimi giorni” (p. 26) – ma grazie a Dio lui non lo sa e si considera un tecnico o un artista. Possa Dio conservargli questa convinzione” (p. 31).

L’identità del design, quella autentica, guarda negli occhi i grandi temi metafisici, persino teologici, e sfida a “petto aperto” i concetti universali di bene e di male. Design for good or evil? E’ stato il tema portante di una conferenza internazionale tenutasi a Londra qualche tempo fa; non si tratta di una disciplina ingenua e pertanto la sua coscienza non può uscire linda ed immacolata dal tribunale della storia.

Moka (Bialetti)

“Chiunque decida di diventare designer prende una decisione a sfavore del bene puro”.

La conclusione a cui giunge il Nostro è che per la categoria del design non si possa prendere in considerazione il bene in sé, non può esistere, sarebbe un paradosso poiché “in ultima analisi, tutto ciò che è buono nel caso del bene applicato è cattivo nel caso del bene categorico”.

Questa lettura ci guida ad analizzare, tra i molteplici oggetti possibili, un tagliacarte, un missile o  in ultima ratio le camere a gas: sono tutti progettati per funzionare (bene), ma così facendo finiscono per negare l’idea stessa di bene.

“Da quando i tecnici si sono dovuti scusare con i nazisti perché le camere a gas che avevano progettato non erano abbastanza buone – cioè non uccidevano la clientela abbastanza in fretta – ci siamo resi conto ancora una volta di quello che si intende per diavolo”. (p. 22)

Nonostante quest’aura generale di impostazione “metafisica” che sembra avvolgere il testo, ciò che esce dalle pagine per colpirci al cuore della nostra immaginazione è, invece, una sorprendente semplicità e levità del tono, insieme alla varietà e alla ricchezza della ricerca etimologica, che costituiscono le fondamenta stessa del suo lavoro. Per queste ragioni potremmo attribuire a Flusser il dono “planare sulle cose dall’alto”, la “leggerezza della pensosità” trattata da Calvino nelle sue Lezioni Americane, che significa non avere “macigni sul cuore” e fare da contrappeso sia al senso di “pesante opacità” che di mediocre superficialità.

Lampada Tolomeo (Artemide) – Design Michele De Lucchi

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Nel suo continuo incedere, nello sforzo di chiarire che è errato definire immateriale la forma, Flusser propone che la forma altro non sia che l’apparenza stessa della materia, o meglio “la forma è il come della materia, e la materia è il che cosa della forma“; una materializzazione dell’idea. Se le forme assumono connotati propri attraverso il riempimento operato dalla materia, esse non sono né scoperte né invenzioni, ma contenitori per i fenomeni, cioè modelli; quindi in un mondo altamente formalizzato come quello attuale sembra inutile distinguere tra informazioni vere e false, tra scienza e arte, bisogna piuttosto chiedersi quanto le informazioni siano utili e quanto le forme possano essere concretizzate”.

E’ Flusser per primo a disegnare quest’opera editoriale incidendo sulla scrittura e sul layout del testo come se fosse un consapevole atto di design redatto in prima persona. Una scelta stilistica, e non solo, verso un un approccio da filosofia minima, propria di brevi e condensati saggi che corrono rapidi sul filo di pagina, caratteristica che non appartiene certo alla rigorosità del trattato di natura scientifica.

I titoli di alcuni paragrafi, non secondari rispetto al contenuto, “Perché le macchine da scrivere ticchettano”? (già citato) oppure “Con tanti buchi da sembrare un groviera”, spiazzano il lettore allontandando da lui il timore di dover affrontare un trattatato “logicus” philosophicus. Al contrario, come suggerisce Sommatino, ci troveremo a leggere ragionamenti lievi, divertenti, quasi pensieri ad alta voce, che sfiorano a tratti il flusso di coscienza.

Flusser  opta per questa forma di produzione narrativa, che, pur portando con sé il rischio di contraddizioni e di scarsa scientificità, permette di afferrare la complessità dei fenomeni. E questa ragione ne farà la sua forma di espressione prediletta. Ma, come detto, Flusser lavora anche sulla scrittura, mezzo necessario seppure limitato e manchevole nel rappresentare fenomeni complessi e realtà frammentarie.

Sprovvisto di ipertesti e confinato al foglio di carta, nel tentativo di forzare i confini propri del mezzo stesso, egli adotta alcuni interessanti stratagemmi: ad esempio disseziona le parole chiave, giocando con la loro etimologia; altre volte si esercita in prodigiosi slittamenti di significato e in acrobatiche abduzioni, “dissodando” a fondo la materia che tratta alla continua ricerca di nuove informazioni; o ancora, segue ragionamenti circolari che spostano continuamente il punto di vista sull’oggetto.

E’ forse l’autore stesso a nutrirsi di un’eccessiva fiducia nei confronti del progresso tecnologico e del ruolo  delle macchine? Probabilmente dovuto al fatto che egli scrive questi saggi in un periodo storico e in un clima culturale ben definiti: gli anni Ottanta, gli anni dell’espansione delle nuove tecnologie informatiche e telematiche e dell’ ideologia che tale espansione sosteneva. In quest’ottica si spiega forse il ricorrente richiamo alle figure dei robot, che al tempo sembravano dovessero rivoluzionare l’esistenza quotidiana di noi tutti e che, al contrario, la ricerca scientifica successiva sembra aver abbandonato.

Lampada Arco (Flos) design Achille Castiglioni

Oggi la robotica di nuova generazione ha assunto connotati diversi, mentre Flusser immaginava un futuro in cui “grazie ai robot tutti saranno collegati a tutti sempre e in tutti i luoghi da cavi reversibili, e attraverso questi cavi (così come attraverso i robot) potranno trasformare e utilizzare ciò che riescono a procurarsi”. Si spinge addirittura ad identificare nell’uomo-robot del futuro una nuova specie di homo faber predestinata ad incarnare homo sapiens sapiens, “perché ha compreso che produrre equivale ad apprendere, ossia acquisire, generare e trasmettere informazioni” (pp. 40-42).

Flusser riesce a far convivere un certo “afflato” ottimista, con un atteggiamento lucidamente critico, legato a quella lungimiranza progettuale insita da sempre nel design stesso, che non fa cadere un velo scuro sul futuro e non gli impedisce di profetizzare alcuni scenari del nostro contemporaneo (realtà virtuale e cyberspazio), di avvertire l’importanza della rete e di quelle che egli definisce non-cose ( fatte di elementi immateriali, dati, informazioni, conoscenze).

Il nostro avvenire sembra assumere contorni sempre più immateriali, intravede un “totalitarismo dei programmi”, ovvero una società emancipata dal lavoro che crede di prendere le decisioni liberamente ma in realtà vive di programmi, vive cioè di una libertà “programmata”. Consigliamo questo libro unico nel suo genere – che non ha conosciuto la malinconia della vecchiaia – la cui scrittura ironica, allusiva e brillante induce ad una lettura divertita e divertente, seppur utile ed attuale, nella sua duplice anima: quella che tratta di design e quella che si apre a molto altro, e cioè al mondo dentro e sopra di noi.

Fonti

Filosofia del Vilém Flusser pubblicato da Bruno Mondadori

Agalma Rivista: critica di Roberto Sommatino

Vilém Flusser. Dal soggetto al progetto:libertà e cultura dei medisa di Paola Bozzo


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