ENZO MARI DESIGNER.
Dernier philosophe d’un aujourd’hui disparu.
Non si preoccupi il lettore: One Listone Giordano non è diventato francese, ma qui la lingua – magari per l’assonanza con in notissimi Nouveax Philosophes peraltro coevi – si presta a descrivere l’unicità e la tragicità della figura di Mari. Si potrebbe perfino sostituire la parola “filosofo” con “politico” e il titolo per lui avrebbe sempre valore: anche se sappiamo che in Italia (e in italiano) la seconda parola ha perso qualsiasi significato positivo, rispetto alle sue nobili origini.
Eppure politico e filosofo Mari ha saputo essere da sempre, da quando ha fatto il grande salto dall’arte di ricerca al disegno per l’industria e ancora prima, almeno dai tempi della ricerca sul simbolo comunista della Falce e Martello. Con il suo talento impossibile, Mari ha saputo coniugare la capacità di sottoporre qualsiasi processo creativo – si trattasse di una serigrafia di un simbolo o di un segno (per le edizioni Danese) oppure di un semplice vaso per i fiori – a una snervante disamina logica.
Dove l’obiettivo del processo logico/progettuale è paradossalmente l’invenzione – di cose e/o immagini – con la sua natura per definizione arbitraria. Non a caso il vero testamento spirituale di Mari è ancora e sempre l’introvabile e stupendo libro Funzione della Ricerca Estetica. Quel libro uscito per le Edizioni di Comunità, nate dal genio di Adriano Olivetti, può essere considerato il vero “manuale” da lui lasciato alle generazioni a venire (non certo il catalogo di quella mostra alla Triennale di Milano con il suo nome scandalosamente accostato a quello del curatore nello stesso corpo e carattere, come mai visto prima nella storia dell’arte e tantomeno del design).
La pedagogia rivoluzionaria del libro sta anche nell’essere insieme una confessione e una penitenza che l’autore affronta in pubblico.
Affermare che dentro la ricerca estetica stanno sia l’opera d’arte che il lavoro del designer (e il processo del design) – l’una come “verifica”, l’altro come “progetto” – è anche una negazione della distinzione già storicizzata tra arti “maggiori” e “minori” e perfino di una certa iconoclastia di Mari – sempre più forte negli ultimi decenni – verso la natura stessa del disegno per l’industria.
Enzo e Renato. Il Designer ed il Poeta.
Assume allora una grande importanza per capire il Mari “filosofo” il volumetto Enzo Mari designer uscito nel settembre 1980, curato dal compianto comune amico e (mio) maestro Renato Pedio, che con l’inflessibile Enzo era riuscito a creare una confidenza rara, basata su una grande stima intellettuale. Così il compito ben assolto dal Poeta, dopo intense e animate discussioni tra i due, è stato di restituire in forma di “trattato linguistico illustrato” una chiave originalissima di lettura della cultura del design che il Progettista ha saputo esprimere.
Si trattava di comporre un’esegesi coerente del lavoro, necessariamente per certi versi “caotico” di un designer che raramente ha rifiutato una occasione buona di rifondare il progetto degli oggetti di serie – e con esso intere filosofie aziendali: quindi aperto alle tipologie più diverse, purché nel contesto dell’impresa, della produzione (e nel carattere personale dell’imprenditore) Mari stesso potesse riconoscere una possibilità di dare risultato concreto, materiale e commerciale, ai suoi estenuanti processi logici e analitici.
Molto lungo raccontare di quali ricordi è carico per me il testo che segue, recensione al libro di Pedio. Non si tratta solo del primo vero pezzo da me pubblicato su Domus, da poco rilanciata internazionalmente da Alessandro Mendini succeduto a Gio Ponti nella direzione: ma per la data (1980) e le circostanze che lo mettono proprio sullo spartiacque tra due decenni, gli anni 70 e gli anni 80.
Da sempre convenzionalmente visti come opposti nelle idee e nelle azioni, negli avvenimenti politici e artistici specialmente in design e architettura, a una più accorta analisi oggettiva questi due decenni (o meglio, un ventennio diviso in due) risultano per molti versi contigui e continui nelle motivazioni di fondo di molti autori: da Mari a Mendini, da Castiglioni a Sottsass, da Portoghesi ad Aldo Rossi, e così via.
Non solo perché le esistenze dei loro protagonisti importanti attraversano entrambi, ma perché a ben vedere, nel lavoro dei progettisti più coerenti, non vi è contraddizione tra quello che essi sono (stati) come persone prima e dopo il 31 dicembre 1979. Quello che forse viene a mancare negli anni 80 è proprio una maggiore capacità critica degli osservatori – interni ed esterni – del design, una motivazione e una spinta collettiva a quel processo di analisi che avrebbe sicuramente fatto meglio alla cultura italiana del progetto.
Così in un certo senso il libro Enzo Mari Designer fa proprio da spartiacque tra una fase “critico-operativa” del design – per citare Bruno Zevi (che non a caso è stato a lungo l’amico/nemico di Pedio nella condirezione della rivista L’Architettura Cronache e Storia) – e quella edonistico-emozionale, prevalente per tutti gli anni 80. Pedio e Mari formano invece un singolare sodalizio intellettuale, critico e autocritico: entrambi outsider, a modo loro, di un sistema che si va facendo sempre più compiaciuto e autoreferenziale.
Pedio compone poesie per il gioco di Mari L’Altalena delle edizioni Danese, è l’autore di molti testi per i suoi progetti politici: le struggenti poesie/epigrafi à la Spoon River per l’utopico e non realizzato progetto di mostra ADI Design & Design, o le Parole Crociate per il progetto di Mari Tre Piazze del Duomo, un multiplo in 250 esemplari stampato (1983) dallo stesso editoredel mio Arte Industriale. Il disegno della produzione Danese (1984): “naturalmente” con una postfazione di Pedio.
Conta ancora raccontare come segretamente Pedio, da professore del benemerito ISIA di Roma introdusse lo scrivente enfant prodige (cit. Mendini) alla corte del design milanese, a iniziare da Domus? O che il primo progetto da me visto nascere nello studio di Mari fu proprio la mostra Design & Design? O ancora che, esaurita la spinta utopica di quell’ultimo atto di fiducia di Mari nell’ADI, fosse Lea Vergine a chiamarmi a collaborare alla sua spettacolare mostra L’Altra metà dell’Avanguardia? Per ora no, tutta materia per un’altra puntata di questo lungo omaggio a Mari e con lui a un’age d’or di Milano e della cultura del progetto.
Nota (ancora personale) a margine
Se Enzo Mari può dunque essere considerato il Michelangelo del design (con le sue impossibili aspirazioni universali e la vocazione rivoluzionaria, unite alla capacità di disegnare cose che diventano immediatamente reali) e Ettore Sottsass il Leonardo del design (con i suoi interessi esoterici, la mente multiculturale, il piacere erotico del disegno quasi fine a sé stesso), personalmente mi accontenterei di essere un loro Vasari. Perché raccontare criticamente certi autori e le loro vicende al pubblico del design sempre in espansione (compreso quello degli addetti ai lavori, afflitto spesso da amnesia quindi molto bisognoso di memoria storica) sembra sempre più importante: specialmente se chi scrive di quelle vicende è stato partecipe in prima persona. Eppure… anche solo vivere per raccontarla può non bastare se si sono avuti “cattivi maestri” di logica progettuale, come proprio Mari. Un certo vaso reversibile che ho disegnato più di trent’anni fa è ispirato da (non “a”) il vaso Pago Pago di Enzo Mari per Danese… E certo si aprirebbe qui un discorso sugli allievi di Mari – buoni e cattivi – nelle nuove generazioni del design italiano, adatto magari a un’altra puntata ancora di questa serie. Intanto, a partire dal testo che segue, il cerchio non si chiude: azione vissuta e racconto diventano una spirale d’iniziazione senza fine, lungo cui scorrono volti e situazioni, tranches de vie indimenticabili o comunque da non dimenticare, per capire e sopravvivere alle contraddizioni del progetto. Queste con gli anni, i decenni, i secoli, non diminuiscono e non diminuiranno mai, perché intrinseche al sistema capitalistico di produzione per cui ci ostiniamo a progettare, come ben sapeva Enzo Mari.
Enzo Mari designer *
Stefano Casciani, in domus 607, giugno 1980
Parlando con Renato Pedio, nel periodo della preparazione di questo libro, seppi che sarebbe stato dedicato al musicista contemporaneo Franco Evangelisti, protagonista recentemente scomparso dell’esperienza di “Nuova Consonanza”. Erano gli stessi giorni in cui Sartre concludeva la sua vicenda esistenziale. Ora, leggendo quel testo nella sua forma definitiva, questi ricordi si legano a confusi pensieri sulla razionalità compositiva nell’arte, sulla disperazione filosofica che spinge all’azione politica rivoluzionaria.
Realtà stranamente coincidenti nella figura di un personaggio centrale sulla scena del design italiano ed internazionale: quell’Enzo Mari che è espressione vivente di tutte le contraddizioni dell’operare progettualmente per l’industria, ma anche per la comunicazione totale, da quella visiva a quella politica, con l’uomo.
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Ugualmente questo libro testimonia di un percorso lungo, tortuoso e spezzato, fatto di grandi affermazioni, angosce intellettuali e decisioni sorprendenti. L’analisi sistematica di Pedio accompagna in questo percorso ed aiuta a capire i progetti/oggetti di Mari, senza lasciare più spazio a digressioni puro-visibiliste sulla loro “piacevolezza estetica” Essi sono invece inseriti in un primo esperimento di nuova sistemazione linguistica del mondo degli oggetti. Le immagini, a volte note, a volte rivelatorie, di disegni, progetti e multiformi operazioni politiche ci fanno ritrovare l’ostinata continuità di Mari nel perseguire l’obiettivo dell’ “auto progetto uomo”. In un inquietante, mitologico dialogo iniziale di tre personaggi (dietro cui si indovinano tre eterni attori del progetto contemporaneo: il designer, l’utente e il teorico), l’esperienza creativa di Mari viene sottoposta ad ogni genere di critica — a tratti spietata e anche volutamente agnostica dei problemi del progetto: ma è ancora una buona occasione per verificare la logica del suo operare.
Chi può oggi negare che il consumatore/utente/fruitore ha ben pochi altri destini, oltre quelli immortalati nelle lapidi del Museo creato per lui, nel primo progetto di “Design & design” la mostra ADI/Compasso d’Oro? E che tutto possa essere ridotto a merce, persino il valore simbolico del comunismo? Come Mari aveva enunciato nelle 44 valutazioni, dove la “falce e martello” veniva scomposta e venduta; così come si compra la bistecca dal macellaio, era permesso portarsi a casa un bel pezzo di rivoluzione.
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I meccanismi di produzione e sfruttamento che sottendono questa realtà sono stati accuratamente disegnati nella Carta economica del suo Atlante secondo Lenin; definiti nell’ Ipotesi di rifondazione del progetto; andavano dimostrati con il progetto di “Design & design”. Sono stati invece tristemente sintetizzati in quel macchinoso, impressionante oggetto che era la Ruota per l’ultima Triennale di Milano*; perché, nello sfolgorio luccicante della coloratissima Sezione del design, Mari ha affidato proprio a degli inattivi quanto promettenti fuochi d’artificio il messaggio della parola “Rivoluzione”? Inserendola poi-in un’inesorabile oscillazione matematica tra “Riforma” e “Restaurazione”?
Ripercorrere l’itinerario rigorosamente consequenziale della sua attività di artista e designer, lungo le pagine del libro, può dare una risposta a questa domanda. La sequenza dei suoi oggetti e dei suoi interventi è lucidamente scandita da didascalie che ce ne dicono l’essenziale; le foto sono l’utile commento al discorso linguistico di Renato Pedio.
E se questo libretto non ha una lussuosa edizione, come quelle a cui ci hanno abituato gli editori dei maestri del design, se certamente non contribuirà al successo commerciale dei suoi oggetti, alla conclusione non si potrà non comprendere l‘elegiaca chiusura della lettera di dimissioni di Mari dalla Presidenza dell’ADI:
“… Non posso accettare di essere il cantore dell’utopia alla condizione di essere il celebrante della restaurazione”.
* Renato Pedio, Enzo Mari Designer, Dedalo Libri, 1980/2004
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