Stefano Cascianiche dalla fine degli anni ’70 ha avuto in lui un maestro e poi un compagno di discussioni teoriche e pratiche, ripropone alcuni dei suoi temi preferiti in una serie di interventi per One Magazine: tra ricordi personali, libri lontani e nuovi testi, che raccontano un Mari diverso dalle convenzioni.

La recente scomparsa di Enzo Mari (1932/2020) non lascia solo un grande vuoto nel cuore dei tanti che ne hanno amato le idee e l’opera, ma riporta anche l’attenzione su una serie di questioni centrali per la cultura del progetto, che Mari ha saputo affrontare più volte nella sua opera insostituibile: industria e artigianato, arte e design, ricerca e produzione.

Enzo Mari - Stefano Casciani con Enzo Mari alla sua mostra personale alla Triennale di Milano, 1999/2000. Foto Pino Guidolotti
Stefano Casciani con Enzo Mari alla sua mostra personale alla Triennale di Milano, 1999/2000. Foto Pino Guidolotti

Stefano Casciani, che dalla fine degli anni ’70 ha avuto in lui un maestro e poi un compagno di discussioni teoriche e pratiche, ripropone alcuni dei suoi temi preferiti in una serie di interventi per One Magazine, tra ricordi personali, libri lontani e nuovi testi. La serie si apre con la storia della “Proposta per la lavorazione a mano della porcellana”, presentata da Mari per Danese nel 1974: stesso anno della forse più nota “Proposta per un’autoprogettazione”, ma che questa precede politicamente ed operativamente.

L’IMMAGINAZIONE E L’OPERAIO

Danese, Mari e la produzione artigianale*

Le discussioni e i pamphlets sulle straordinarie possibilità di uno sviluppo neoindustriale italiano grazie a fenomeno del cosiddetto making (variante digitale del “fatto a mano”) si sono negli ultimi anni molto intensificati, con notevole ottimismo e alcune esagerazioni. Credo interessante riproporre qui in proposito la riflessione fatta oltre trent’anni fa nel volume Arte Industriale sul lavoro di un’azienda, la Danese di Bruno Danese e Jacqueline Vodoz, e di un progettista – Enzo Mari – che fin dagli inizi del loro lavoro sono stati anticipatori, teorici e pratici, di una rivalutazione della produzione artigianale, fondamentale per il design in Italia.

“Proposta per la lavorazione a mano della porcellana”, Enzo Mari per Danese Milano, 1973/74. Ripubblicato in disegno. la nuova cultura industriale, vol # 6 pp. 78/85

Per il design italiano, l’inizio degli anni ’70 è il momento di massima affermazione internazionale, ma anche il principio di un periodo di crisi dell’idea di progetto come possibile risposta alle contraddizioni del rapporto arte industria. Sul piano politico e culturale più generale, i segni di una crisi profondissima sono apparsi già da tempo e si identificano con il grande movimento di matrice progressista e libertaria che spinge all’abbattimento dei valori conservatori e delle istituzioni repressive tradizionali.

“L’immaginazione al potere” è tra gli slogan più famosi del maggio ’68, nato in Francia ma rapidamente accolto in tutta Europa dal movimento rivoluzionario degli studenti. Nel contemporaneo sviluppo delle agitazioni rivendicative operaie gli studenti vedono la speranza di un’unità di azione politica della sinistra, ma tramite quello slogan essi dichiarano anche la necessità di una più generale rivoluzione culturale. Questa presuppone la riappropriazione generalizzata della capacità di espressione, il manifestarsi di una creatività diffusa come una delle condizioni per il rovesciamento dei rapporti di produzione. Per gli artisti-designer che collaborano con Danese (sostanzialmente, per Mari e Munari) questa posizione “politica” non è certamente una novità. (…)

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Se è inutile assumere la categoria «creatività diffusa” per l’opera di Mari, è però certamente vero che questi ha dedicato molta parte della sua attività teorica e pratica alla critica della visione tradizionale del progetto (specialmente per ciò che riguarda la divisione del lavoro per l’industria) ma anche, in generale, contro i luoghi comuni vecchi e nuovi della «cultura del design”. In questo senso non stupisce la vetrina che egli allestisce per il negozio Danese proprio nel maggio 1968, in occasione della XIV Triennale di Milano dedicata al “Grande Numero”: un titolo evidentemente riferito al problema della serialità. Di questo titolo Mari si prende bellamente gioco esponendo proprio “un grande numero”: letteralmente, una gigantesca forma che riproduce il numero 1, in una scala tale da occupare l’intera vetrina e parte dell’interno. (…)

Dalla “Proposta”: Porcellana modello C, cm 30×7. Coll. Museum of Modern Art, New York
Porcellana modello C, vista inferiore.Coll. Museum of Modern Art, New York

La sarcastica vetrina di Mari non è che uno dei molti, decisi pronunciamenti che dalla seconda metà degli anni ’60 questi avanza, a volte ironicamente altre volte più drammaticamente, sulla situazione politica della cultura: la Macchina per cortei, sempre del 1968, con cui Mari risponde proprio all’invito della Triennale per la mostra “Intervento nel paesaggio”, la ricerca Nuovo Marchio Falce e Martello del 1971, l’operazione Vesuvio del 1972 con cui propone di trasferire all’interno del cratere, ancora attivo all’epoca, tutti gli speculatori arricchitisi con illeciti edilizi a Napoli, amministratori e architetti compresi, in appositi edifici da questi disegnati.

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Sono queste tra le pochissime manifestazioni di protesta che la cultura visiva di sinistra abbia saputo esprimere in Italia a commento della reale situazione sociale e politica: e non a caso nella persona di Mari. Egli ha saputo dimostrare negli stessi anni, e già in quelli precedenti, un coinvolgimento profondo, evidentemente di natura politica, nel problema del ruolo del progettista rispetto a quello del produttore di oggetti: inteso non come imprenditore ma come produttore materiale, operaio o artigiano che esso sia. Mari descrive quasi un ideale percorso esplorativo di questa problematica attraverso gli oggetti per Danese.

I Ferri Saldati propongono il superamento della manualità (in senso deteriore) del lavoro artigiano, attraverso l’uso di saldature semplici (realizzabili da un operaio); i vasi Camicia, con i tagli e i fori nel profilato d’alluminio, i successivi cestini e appendiabiti dove analoghe operazioni vengono effettuate sul tubo di PVC, sono un’ulteriore evoluzione verso la meccanizzazione delle operazioni. Questa è raggiunta con il vaso doppio Pago-Pago, che è generato completamente dalla sola operazione di iniezione della resina nello stampo.

Porcellana modello Q, cm 30×7. Coll. Museum of Modern Art, New York
Porcellana modello Q, cm 30×7. Coll. Museum of Modern Art, New York

Ma questa totale meccanizzazione della produzione non è certamente l’obiettivo ideale di Mari: che cosa ne è dell’operaio, se tutto l’oggetto è frutto solo di un’operazione della macchina? Sparisce, come profetizzano i teorici dell’automazione totale nell’attuale, reale, era informatica? Ancora una volta una concreta occasione di lavoro progettuale proveniente da Danese offre a Mari l’opportunità di indagare ulteriormente la problematica del lavoro produttivo.

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È la «Proposta per la lavorazione a mano della porcellana”, del 1973, che segna l’inizio di una nuova fase di lavoro. Mari stesso ne illustra dettagliatamente la genesi e lo sviluppo in un lungo testo per il catalogo della sua mostra al Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma, in cui dà una chiave di lettura del progetto, manifestamente indirizzato verso una “riappropriazione” del lavoro artigianale. L’analisi sull’avvenuta “automazione” della produzione artigiana di porcellana tradizionale è spietata: “Come avviene questo lavoro? Un lungo pancale di legno, un operaio, per otto ore al giorno, per tutta la vita versa la poltiglia nei contenitori; un secondo operaio sposta contenitori, un terzo li apre, e così via, sempre per tutta la vita. Bisogna mantenere ritmi di lavoro, bisogna realizzare tanti vasi al giorno, ecc. Quindi è la catena di montaggio di Mirafiori, ma fatta con le tecniche antiche. Questo artigianato dunque non che la stessa forma di alienazione all’interno della fabbrica dove si produce in termini standard? Sì, è la stessa cosa… “

Il volume Arte Industriale. Danese e la sua produzione, Arcadia 1988, quasi un catalogue raisonné della lunga esperienza di Bruno Danese e Jacqueline Vodoz con Mari e Munari. Grafica di Elio Mari

Dall’analisi di questo sistema produttivo deriva l’impostazione di un vero progetto artigianale: «Se deve essere un oggetto artigianale sia dunque un oggetto realizzato completamente a mano dallo stesso operaio, in cui l’operaio definisca di volta in volta la forma, sia pure nell’ambito di una stessa tipologia, e in cui tale definizione umana dia, come risultato, quella piccola diversità tra forma e forma di una stessa serie che, appunto, caratterizzano l’oggetto artigianale.”1)

Dov’è l’artigiano

Il ritorno all’artigianato, dopo dieci anni di ininterrotta propugnazione della concezione industriale del design, non è dunque nel caso Danese un ripiegamento né per progettista né per il committente. È invece la tempestiva intuizione di una possibile futura evoluzione della produzione di oggetti ad alto valore formale e funzionale, in cui modi di produzione artigianale e industriale possono convivere, e in qualche caso coincidere, allo scopo di ottenere un risultato di qualità più elevata. Questa possibilità verrà chiarissimamente enunciata e addirittura teorizzata da Mari alcuni anni più tardi, con la mostra e il catalogo “Dov’è l’artigiano”, 2) che avranno ampia risonanza culturale.

Porcellana modello S, cm 27×8. Foto Jacqueline Vodoz. Tutti i modelli sono stati eseguiti dagli artigiani Raffaele Tosin, Antonio Ongaro e Angela Cerin del laboratorio Tarcisio Tosin.

Ma, nel 1973, ancora una volta Mari e Danese sembrano assumere un atteggiamento provocatorio, con un gesto isolato, apparentemente fuori dal contesto problematico del momento. Non a caso è proprio Ettore Sottsass, un altro personaggio che all’epoca vive un analogo isolamento culturale, a darci, nella sua introduzione al piccolo catalogo edito per la presentazione della “Proposta”, una delle più belle interpretazioni della poetica “sociale” di Mari e di come questa operazione la traduce in pratica.

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Che l’Enzo Mari, tra tutti quelli che fanno questo buffo, ambiguo, incerto e scivoloso mestiere che oggi si chiama `design’ sia uno che insegue con più disperazione e accanimento il sogno di sottrarlo (questo mestiere) al suo peccato originale, di riscattarlo dalla corruzione, di metterlo in qualche modo a disposizione della storia della gente che cammina per le strade piuttosto che a disposizione delle presunzioni stizzose delle aristocrazie al potere, questo si sa. […] Certo a disegnare ceramiche anzi porcellane pare che non si andrà molto lontano: nessuno si fa grandi illusioni, neanche Mari che per conto suo più ci pensava e più si sentiva male, almeno fino a quando, a forza di pensarci, non ha scoperto che forse c’era un modo di mettere il suo lavoro al servizio di quelli che lo facevano, invece che al servizio di quelli che le avrebbero comperate. […]

Quel fatto importante, essenziale, liberatorio al punto di diventare terapeutico, voglio dire quel fatto per cui uno sta lì da solo, attento a costruire piano una cosa, una cosa qualunque che nasce e cresce e finisce bene soltanto se uno ci mette cura, esperienza personale, capacità di prendere misure con i suoi occhi, di tenere la sua mano ferma, leggera o pesante, di capire dove stanno e dove si rompono gli equilibri, dove cominciano e dove finiscono le fragilità, dove stanno gli assi e le diagonali, di sapere e di controllare tutte queste cose preziose e segrete del lavoro che si fa per fare una cosa, quel fatto importante e liberatorio, alla gente che fa ceramiche e porcellane, oramai è negato. […]

Ma l’Enzo Mari io me lo immagino guardare manovelle, stampi di gesso, decalcomanie e pagnotte di argilla, con quei suoi occhi impauriti e accaniti e me lo immagino prendere pezzetti di argilla con le dita, davanti a quegli uomini delusi nella loro storia e chiedere : “Come si fa? Si fa così? “ e invitarli a continuare… (Purtroppo non so i loro nomi).

Adesso qui ci sono le porcellane. Sono state disegnate in fabbrica. A me, a dire la verità, non sembrano oggetti che uno si tiene perché sono fatti a mano, oggetti complicati e costosi […] Io credo che queste porcellane siano piuttosto diagrammi per gesti meticolosi di mani, per sguardi attenti di occhi che forse hanno ritrovato il loro destino […] credo che poi forse vadano avvolte nel lino e riposte in un armadio molto speciale perché non vengano toccate dalla ferocia della vita quotidiana che non fa altro che farci dimenticare, dimenticare, dimenticare le mani affaticate, gli occhi spaventati, la pelle inerme della gente; voglio dire la gente che cammina per le strade, quella gente che la sera passa il cancello, sale sulla bicicletta e percorrendo stancamente il bordo della strada, un palo della luce dopo l’altro, se ne torna a casa. Ma forse non sono stato abbastanza chiaro.”  3)

Enzo Mari con i modelli di mobili della “Proposta per un’autoprogettazione”, Milano 1974.

Tanto più significativo appare che questo commento venga proprio da Sottsass, leader dei movimenti dell’architettura e del design radicale che nello stesso periodo propongono una revisione (rivoluzione?) in senso “antropologico” della cultura del progetto. Il ritorno a strumenti minimi, come il corpo, per la progettazione e la gestione individuale dello spazio e dell’abitare, la critica ironica e distruttiva del bell’oggetto, il ritorno a tecniche primitive sono tra le idee più importanti del movimento 4).

Il design italiano ufficiale e le aziende industriali che lo rappresentano con i loro prodotti, di fronte all’attacco portato dal design radicale, di fronte alla messa in crisi dei loro valori tradizionali, o non reagiscono (e precipitano in una crisi di idee, da cui spesso solo il recupero dell’esperienza e dei designer ex-radicali riuscirà a risollevarli all’inizio degli anni ’80) oppure, come nel caso di Danese, scelgono di persistere nella strategia mirata di un affiancamento dell’esperienza artigianale e di quella industriale. Il modello produttivo messo a punto da Danese, basato appunto sulla convivenza di queste due esperienze, si rivela in questa fase vincente, e permette all’azienda di superare la crisi della seconda metà degli anni ’70.

Testo rielaborato da Stefano Casciani, Arte Industriale. Gioco Oggetto Pensiero. Danese e la sua produzione, Arcadia, Milano 1988, pp. 63/67. Ripubblicato in disegno. la nuova cultura industriale, vol # pp. 78/85

Note

1. Enzo Mari, in A.C. Quintavalle (a cura di), Enzo Mari, catalogo della mostra al Centro Studi e Archivio della Comunicazione (CSAC), Parma,1983, p. 264-265.

2. Cfr. E. Mari, Dov’è l’artigiano, catalogo della mostra alla Fortezza da Basso, Firenze, 23 aprile-3 maggio 1981, Electa Firenze.

3. E. Sottsass, in, Enzo Mari. Una proposta per la lavorazione a mano della porcellana, Milano, Danese, 1973, senza indicazioni di pagina. NdR. La citazione qui riportata è più ampia di quella pubblicata nel volume Arte Industriale.

4. Cfr. in proposito il fondamentale volume di Paola Navone e Bruno Orlandoni, Architettura radicale, Milano, Documenti di Casabella, 1974, e il capitolo Dal Pop alle avanguardie radicali 1964-1971, in S. Casciani, Mobili come architetture. Il disegno della produzione Zanotta, Arcadia, Milano 1984, in part. pp.77-78


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