Una mostra non celebrativa ma emozionale rende omaggio ad Alessandro Mendini (per la prima volta a Milano dopo la sua scomparsa) e al suo esprit de corps, attraverso le opere di alcuni autori scelti tra i tantissimi con cui ha immaginato e creato un sofisticato paesaggio di idee ed oggetti utopici.
Non sapremo forse mai il numero esatto di autori con cui Mendini ha collaborato nel corso della sua lunga, eclettica attività: solo nel libro Atelier Mendini pubblicato in occasione dell’inaugurazione del Museo di Groningen nel 1994 (ormai 27 anni fa) se ne contano circa 800, dall’ A di Andrea Bolocan nella Nizzoli Associati alla T di Oscar Tusquets per Casa Bisazza. Così che il Giardino dell’Eden presentato in questo scorcio di fine 2021 nella galleria di Antonio Colombo è solo un tassello del gigantesco puzzle in cui, come in un famoso lavoro di Alighiero Boetti, appare “Tutto” – o almeno per una buona parte – il paesaggio culturale internazionale del progetto che Mendini ha scandagliato coi suoi invisibili ma efficaci radar e sonar mentali, per trarne importanti risultati artistici: che hanno influenzato e influenzano più di una generazione di autori, anche quelli che a questo tipo di ricerca non hanno avuto occasione di contribuire.
Personalmente ho iniziato a partecipare a questo grande esperimento di lavoro collettivo su suo invito circa nel 1977, collaborando alla rivista Modo e poi nella redazione della Domus che lui ha saputo riprendere dalle mani stesse di Gio Ponti per riportarla a un nuovo splendore, e poi a lungo insieme ad Alessandro Guerriero e alle altre figure dello Studio Alchimia, continuando negli anni in questa frequentazione divenuta nostra personale amicizia: tanto da potere essere spettatore e/o partecipante – insieme a tanti altri, di cui la selezione in questa mostra è solo una tranche – della sua lunghissima traiettoria di generoso artista, architetto, polemista, scrittore, designer, poeta e molte altre cose.
Così l’occasione offertami dalle figlie Elisa e Fulvia, curare questo insolito progetto di mostra (nata da un’idea dell’industriale/gallerista Colombo, allestita da Alex Mocika come un giardino sognante o forse subacqueo) è stato anche un momento opportuno a indagare come alcuni tra i tanti autori che si sono trovati a lavorare con Mendini, quasi sempre su sua iniziativa, abbiano saputo orientarsi su una personalissima deriva artistica, con momenti e possibilità di incoerenza: proprio come il suo stesso percorso di esponente critico di una borghesia coltissima e illuminata non è poi stato così lineare, e il suo stesso passaggio dall’ideologia “radicale” alla ricerca, negli ultimi anni, di un equilibrio cosmico dei pensieri e delle opere, non poteva essere così improvviso e imprevisto: perché la natura di un autore tanto particolare e dei suoi amici è fatta degli stessi ripensamenti, dubbi e contraddizioni delle persone qualsiasi.
A regolare almeno parzialmente questo scenario intessuto di valori artistici ed esistenziali, e a rendere il senso di affezione per le persone e le cose che Mendini ha sentito e ha saputo trasmettere a tanti autori, dobbiamo immaginare un’ideale matrice estetico/geometrica. In essa, come in uno specchio magico che riflette una nostra immagine sempre leggermente diversa, s’incontrano e s’intrecciano la vita sua e degli amici, gli eventi e le opere, le collaborazioni e amicizie, agnizioni e disconoscimenti: matrice dove diversi autori in questa mostra compariranno in più incroci, a partire dalla redazione della rivista Casabella “Radical” dove inizia il suo incontro con Franco Raggi e Riccardo Dalisi, simultaneamente alle esperienze di Global Tools in cui compare anche Michele De Lucchi, che sarà poi anche uno dei importanti designer per il primo Studio Alchymia (con “camei” di Raggi e Dalisi).
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Alchimia (già Studio Alchymia, poi Studio Alchimia e infine Alchimia) è il luogo fisico e intellettuale fondato da Alessandro Guerriero, anima calma ed esaltata di inventore di oggetti e azioni degne del Situazionismo, moltiplicate in decine, centinaia di progetti e mostre e oggetti che ne derivano in un’enciclopedica opera a molteplici mani con Mendini. Dalla prima collezione Bau-Haus del 1979 dove compare già la famosissima Poltrona di Proust, alla sala L’Oggetto Banale per la Biennale d’Architettura di Venezia (1980) dove sullo sfondo campeggia un grande paesaggio urbano di Arduino Cantafora, fino al Mobile Infinito dove appaiono tra l’altro contributi di Mimmo Paladino, Ettore Sottsass, Luigi Serafini, Enzo Cucchi, Sandro Chia, Francesco Clemente (solo Paladino è presente nella mostra con un grande e bellissimo acquerello e un ritratto di Mendini), fino al museo di Groningen: capolavoro costruito dI Alessandro e Francesco Mendini con Giorgio Gregori, Philippe Starck, Michele De Lucchi, Coop Himmelblau, la testimonianza architettonica ancora oggi più viva e reale dell’esprit de corp che distingue il lavoro di Mendini da quello di altri pure grandi autori della sua generazione.
Erano i primi anni Novanta e Alessandro si era già lasciato da qualche anno alle spalle l’esperienza della Domus post-Ponti, di cui è impossibile enumerare la moltitudine di autori presentati o collaboranti in cinque anni di pubblicazioni ma da cui nasceranno altri stabili rapporti d’invenzione, come quelli con Occhiomagico, più creatori di immagini visionarie che solo fotografi, come autori di molte copertine della rivista.
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Credo perciò che anche dalla fortissima delusione per dover lasciare Domus e la comunità artistica che si era creata intorno ad essa, dopo averla resa nuovamente la rivista di architettura e design più importante al mondo, sia nato il grande collettivo fondato con il fratello Francescoe chiamato Atelier Mendini, con un bel riferimento ai mestieri della moda che tanto hanno affascinato Alessandro: e che sarà per quasi tre decenni, fino alla sua triste scomparsa nel 2019, la piattaforma su cui far intervenire più o meno liberamente tanti altri autori, dando loro spazio e anche autonomia di espressione. Così se con Alchimia maturano personalità come Carla Ceccariglia o Bruno Gregory, nell’Atelier convergono più allora giovani designer e architetti, come Massimo Caiazzo, Alex Mocika e Dorota Koziara: quest’ultima anche grande promotrice delle idee di Mendini nell’universo di una Polonia colta, e sviluppatrice di un mondo di oggetti e sculture che non hanno però niente di “mendiniano”.
La necessità per gli artisti suoi amici di sviluppare una propria identità, come già scritto, è infatti un nodo cruciale per la loro evoluzione: mentre è chiaro fin dagli anni Sessanta che la vena di ricerca sperimentale di Riccardo Dalisi, pur nel suo forte espressionismo, è totalmente autonoma e senza uguali, così come la bizzarria comica del cartoonist Massimo Giacon, occorre un lavoro più intenso e disincantato a Maria Christina Hamel, Anna Gili, la stessa Carla Ceccariglia, ancora Bruno Gregory, Alex Mocika, Massimo Caiazzo per arrivare a definire – come sapranno fare – una loro originale cifra stilistica.
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Esistono poi, soprattutto negli ultimi anni, veri e propri satelliti orbitanti su rotte spaziali tangenziali alla galassia Mendini, come certe comete visibili agli astronomi solo ogni 60/70 anni, ma che brillano di forte luce propria: è il caso di Vincent Beaurin, Pierre Charpin, Jaime Hayon, Studio Job, Karim Rashid, quest’ultimo per certi aspetti il più simile alle tematiche di Mendini: che gli dà anche l’opportunità di progettare e realizzare la stazione Università (così come per Oscar Tusquets la stazione Toledo) nella Metropolitana di Napoli, quello straordinario “Museo Obbligatorio” secondo l’ironica definizione di Achille Bonito Oliva che con Alessandro ne condivide l’ideazione e le scelte degli artisti.
In questo senso la sua visione degli autori come tanti corpi individuali, aggregabili e disaggregabili in molteplici gruppi in/con cui lavorare, fa parte di quel “pulviscolo” con cui egli stesso ha definito spesso le sue opere e una condizione generale del mondo dell’intellettuale creativo: che è anche una grande profezia del futuro (ormai presente) del progetto e dell’anima in esso contenuta, nei casi migliori.
Se infatti il World Wide Web è divenuta davvero la quinta (o sesta) dimensione in cui vive oggi per lunghi periodi gran parte dell’umanità con la sua manifestazione al tempo stesso più misteriosa e più incombente, l’Internet of Things, Mendini con la sua fissazione per il lavoro di gruppo ha profetizzato e costruito un Internet of Souls: dove interagiscono decine, centinaia, forse migliaia di anime di autori con le loro diverse ispirazioni, che possono però convergere a volte in una stessa direzione, sotto la guida o semplicemente la spinta di Mendini stesso.
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Così finalmente in questa mostra le acque dove nuotano questi autori/pesci – vestiti delle cicatrici che il lavoro intellettuale e progettuale, specialmente se utopico, lascia su vasi, lampade, ceramiche, vetri, dipinti a olio, acrilico, tempera o acquerello, litografie, serigrafie, fotografie, tessuti, arazzi, mobili grandi o piccoli – scorrono in un Giardino dell’Eden che a Mendini sarebbe piaciuto molto visitare. Conforta il curatore, gli autori, il pubblico affezionato sapere che forse da lassù si sporga ancora un pochino tra le nuvole per vedere meglio – col suo sguardo di occhi grandi come quelli di un idolo arcaico e buono – cos’hanno combinato i suoi sodali e compagni e compagne di strada nel design, nell’architettura e nell’arte, quell’arte che Alessandro ha sempre amato, almeno quanto amava la vita.
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