Un incontro a viso aperto con John Pawson nell’hub culturale milanese di Listone Giordano Arena con lo storico maestro del minimalismo.
John Pawson, l’architetto che incarna il simbolo stesso della purezza, ordine ed equilibrio ha esplorato nel corso della sua lunga e celebrata carriera professionale – di ben quattro decadi – l’idea di semplicità come stile di vita e non solo processo progettuale. Una costante ricerca in tutte le sue opere, lo ha reso sempre fedele a sé stesso.
John Pawson -pupillo di Shiro Kuramata- nasce nello Yorkshire nel 1949. Dopo un breve periodo di lavoro nell’azienda tessile di famiglia (di religione metodista, cosa non da poco per il futuro sviluppo del piccolo John) decide di seguire la sua strada intraprendendo un epico viaggio tra San Francisco, l’Australia e il Giappone. Accarezza l’idea di diventare monaco buddista anche se solo per qualche ora.
Tokyo, e l’incontro fatale con Kuramata, lo avvicina al seducente mondo del design e su consiglio del suo mentore torna in Inghilterra per seguire gli studi di architettura presso l’Architectural School di Londra. Un percorso di tre anni, interrotto per incompatibilità caratteriale con il sistema accademico, non gli impedisce di aprire il suo studio “solista” nella capitale del regno (era il 1981). Molteplici e brillanti i suoi progetti di residenze private, includuno il primo appartamento a Belgravia dello scrittore Bruce Chatwin, la Abbey of Our Lady a Nový Dvůr (in Repubblica Ceca), il Jaffa Hotel di Tel Aviv oltre a edifici pubblici e commerciali; trovando anche il tempo da dedicare alla produzione di svariate pubblicazioni e opere fotografiche.
A Calvin Klein va riconosciuto il ruolo di pivot nel successo di John, commissionandogli coraggiosamente la progettazione del suo flagship store newyorkese nel 1995 (quando nessuno sembrava ascoltarlo). La riprogettazione del Design Museum di Londra costruito nel 1962 per il Commonwealth Institute ha segnato un’altra pietra miliare; il suo intervento del 2016 ha fatto di questo edificio un palcoscenico culturale senza tempo, famoso a livello internazionale per il suo stile intrinsecamente minimalista.
Non faccio fatica a raffigurarmi “Sir John” immerso nella lettura – seduto su una panca in legno in uno dei suoi luminosi ed eterei spazi, con un sorriso gentile disegnato sulle labbra – di un trattato di William of Ockham, o Tommaso d’Aquino, sul principio della semplicità. La sua pulizia e rigore formale lo hanno portato ad evitare ornamenti e orpelli inutili, a favore di un essenziale approccio architettonico, disegnando una iconografia minimale che lo ha reso riconoscibile e affermato in tutto il mondo.
Il principio di semplicità era ben noto a tutto il pensiero scientifico medievale, ma esso acquista in Ockham una forza nuova e per certi versi devastante a causa della sua concezione volontarista. Il concetto di semplicità viene infatti correlato alla verità nel campo dell’epistemologia con il principio espresso dal cosiddetto rasoio di Occam, per cui a parità di altre condizioni, la teoria più semplice è la più probabile ad esser vera – una traduzione sul piano metodologico – dell’ideale francescano di semplicità.
Il lavoro dall’essenza “minima” di Pawson si eleva al di sopra delle tendenze e delle masse per la sua individuale visione dell’architettura. Un cammino costeggiato da una severa disciplina – quasi ascetica – alla ricerca della semplicità e un occhio acuto per la lettura del dettaglio, benché minimo, e pressoché impercettibile allo sguardo altrui.
Elogio della semplicità
«La verità profonda, per fare qualunque cosa, per scrivere, per dipingere, sta nella semplicità. La vita è profonda nella sua semplicità» declama Charles Bukowski. L’etimologia dal latino: simplex, composto da sem- uno solo e da plectere -piegare, ci restituisce il significato di “piegato una sola volta”. L’immagine di un gesto, apparentemente spontaneo, che richiede invece una certa dose di precisione, leggerezza e mano ferma per piegare qualcosa una sola volta. Immagine icastica , il semplice avoca a sé ciò che non è difficile da aprire, ma che va aperto alla propria conoscenza.
Sono spesso le teorie e scoperte scientifiche più rivoluzionarie – afferma il professore e biologo Ian Glynn (La scienza elegante, il fascino della semplicità) – a generare stupore e ammirazione per il soffio di semplicità da cui prendono abbrivio. La meraviglia risiede nella semplicità di risoluzione di alcuni problemi complessi e di come la creatività dello scienziato sia arrivata alla scoperta con strumenti logici della più semplice essenzialità.
«A parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire.»
La formula, utilizzata spesso in ambito investigativo e – nel moderno gergo tecnico – di risoluzione di un problema – recita:
«Non moltiplicare gli elementi più del necessario.»
In altri termini, non vi è motivo alcuno per complicare ciò che è semplice. All’interno di un ragionamento o di una dimostrazione vanno ricercate la semplicità e la sinteticità.
Il lavoro compiuto dall’architetto inglese – in particolare nella sapiente opera di recupero di edifici storici- anima un appassionante dibattito sul tema del ritrovato rapporto tra natura e architettura. John Pawson incarna un modello di semplicità come stile di vita che va ben oltre il vissuto progettuale. Nel corso della sua lunga e movimentata carriera ha dato voce ad una riflessione coerente con i principi della propria consolidata esperienza, tracciando una linea ideale a congiungere l’esperienza e il portato spirituale, dando voce ad una personale espressione contemporanea.
Nella sua monografia Anatomy of Minimum, Minimum è quel che risulta omettendo il superfluo: «il punto in cui non puoi né aggiungere né togliere: l’architettura è fatta anche di atmosfera…» Raffinata semplicità (Etimologia) eleganza essenziale, scarna, bellezza astratta e rarefatta dalle atmosfere giapponesi. E’ ridurre all’essenziale ogni elemento, dettaglio o giuntura di un oggetto. Quando un progetto non può più essere migliorato per sottrazione, l’obiettivo è raggiunto” (riusciamo a cogliere reminiscenze di Saint-Exupery e less is more di Le Corbusier)?
Nel corso degli ultimi dieci anni, Pawson ha applicato la sua concezione di un’architettura ridotta agli elementi essenziali di spazio, proporzioni, luce e materiali a un sistema di edifici articolato per dimensioni e tipologia. Al contempo gli interni seducono.
L’opera è anche una riflessione sulla sfida – a trent’anni di distanza dai primi progetti per gli appartamenti della mercante d’arte Hester Van Royen e dello scrittore/viaggiatore impenitente ed esperto d’arte Bruce Chatwin – di rimanere fedele e trasparente alla propria visione originaria.
Il lavoro compiuto dall’architetto inglese contribuisce a prolungare il dibattito su uno dei temi più antichi della disciplina architettonica: il rapporto tra natura e architettura. Una riflessione coerente con i principi della propria consolidata esperienza, tracciando una linea ideale a congiungere l’esperienza, e il portato critico, della storia ad una espressione contemporanea del problema, sfuggendo con decisione a ‘parole chiave’ capaci, troppo spesso, di condizionare produzione e ricerca scientifica, illudendo una società, già fragile, con promesse facili, che con buona probabilità non soddisferanno i bisogni dell’uomo né gli consegneranno «Paradisi terreni».
La semplicità può condurre sulla strada della spiritualità. Su questo terreno i progetti di edifici sacri intrapresi da Pawson sono interpretati come veri e propri strumenti di misura e orientamento per i pellegrini, sicure roccaforte di un complesso tessuto di percorsi, intrecciato con l’articolata topografia del suolo e del paesaggio naturale. Monasteri, cappelle, chiese, luoghi dello “spirito” dove vivere (pensando in primis ai monaci) e poi meditare, sostare o pregare per fedeli e pellegrini. Questi rifugi progettati seguendo una rigorosa disciplina, ma anche empatia, cercano di immaginare i gesti della quotidianità reiterate dai loro abitanti. L’architettura si modella sulla creta viva offerta dalla natura, nel tentativo di creare luoghi protetti e una migliore qualità di vita per gli uomini.
E’ questo il cuore dell’Abbazia Cistercense di Novy Dvur in Boemia, Repubblica Ceca.
Qui la regola circestense mal si concilia con i ritmi e le abitudini più diffuse: sveglia alle 3 del mattino per la prima preghiera e, a seguire, un rigido calendario che, fino alle otto di sera, alterna momenti di raccoglimento al lavoro manuale.
John Pawson ha cercato di interpretare il senso e i ritmi di un’esperienza così intima e trascendente disegnando volumi minimali, non per questo austeri, in grado di favorire semplicità, ascolto e ricerca spirituale. I materiali privilegiati – da sempre -sono il cemento e il legno, mentre i muri bianchi dialogano in misura tenue e riposante con le sfumature di nicchie, accessori e rivestimenti.
Passeggiando in un’area non molto distante da Unterliezheim, in Germania, arrampicandosi disciplinatamente su di una collina al confine tra foresta e aperta campagna, lo sguardo vaga liberamente sul paesaggio svevo, la chiesa del Villaggio, fino a posarsi su un piccolo manufatto sacro. Non ci sorprende dato che sembra lì da sempre, una composizione geometrica di tronchi accatastati lasciati ad asciugare all’aria.
La poetica cappella in legno appare come un ‘objet retrouvé’ nel suo aprirsi ad un naturale dialogo con l’ambiente che la accoglie, mostrando una spontanea capacità di ‘radicamento’. Il segno del sacro nel contemporaneo intrattiene direttrici spaziali sia orizzontale, abbracciando lo spazio relazionale verso gli altri, che verticale ascendendo al cielo, allo spirito. Un gioco di delicati equilibri tra la dimensione trascendente dello spazio naturale e quella razionale incarnata dalla tecnica costruttiva, che dall’esterno prosegue, sublimandosi, all’interno.
LEGGI ANCHE – Thom Mayne: il bad boy dell’architettura
Non è un’opera d’architettura convenzionale, piuttosto un gesto iconico, capace di comunicare, attraverso il suo ‘carattere’, la funzione, il suo compito, sollecitando un rispettoso silenzio. Architetture concepite da Pawson per elevare lo spirito pur coinvolgono i sensi in una forma di rapimento ascetico ed estetico. Spazi all’interno dei quali vivere un’esperienza primitiva, inondati di luce naturale e a stretto contatto con l’autenticità nuda dei materiali, nel perfetto equilibrio e armonia delle proporzioni. Se ogni progetto è manifesto del suo pensiero, o di una tappa della sua evoluzione, la Home Farm nell’Oxfordshire scandisce i tempi e i ritmi di una scelta lentamente maturata e combattuta, una tregua firmata con la precedente esistenza cittadina, dove l’architetto (e famiglia) si fonde con la committenza stessa.
La home-farm delle meraviglie
Un breve viaggio di un paio d’ore puntando a nord di Londra ed ecco che si può ammirare la famosa Costwolds, celebre per i suoi lussureggianti paesaggi e viste mozzafiato. Un lembo di terra affacciato sul mare che deve la sua fortuna al commercio della lana. Simbolo di quell’epoca sono gli edifici tradizionali in pietra calcarea dalle tonalità dell’ambra. Villaggi isolati con file di case e stalle incarnano idillicamente l’esprit dell’Inghilterra che fu. La casa scelta da Pawson e dalla moglie Catherine risale al 1610, prima di loro era appartenuta a una numerosa famiglia di produttori di latte composta da ben nove fratelli (due dei quali l’abitarono per più di mezzo secolo). Vivevano in un’estensione alla casa principale, mentre il resto dello spazio era pieno di vecchi attrezzi agricoli e oggetti di una vita. Questo non ha però spaventato la coppia, che è riuscita a leggere tra le pietre tutto il potenziale imprigionato da quelle vecchie mura.
“I miei istinti da professionista si stavano facendo sentire – rivela Pawson – questo edificio ha delle ottime fondamenta, quindi ero certo che sarei riuscito a tirare fuori il suo carattere dandogli un tocco moderno. Ho immaginato di unire i vecchi fienili all’abitazione principale, per creare un unico pavimento lineare e scorrevole.
Era tutta una questione di approccio. L’edificio si affaccia a ovest, sarebbe stato pieno di luce del sole da metà mattina fino a sera. Il villaggio è dietro di noi, quindi lo si può vedere a grande distanza, attraverso un magnifico panorama naturale. È una posizione ideale, fa parte del villaggio ma permette una privacy totale”.
LEGGI ANCHE – Casa K, a firma Alessandro Bulletti Architetti, vince il premio speciale IN/ARCH
Dopo un’attenta e meticolosa opera di ristrutturazione durata quasi sei anni, Pawson è riuscito a creare una serie di connessioni tra i fienili e l’edificio principale. Ciò ha permesso lo sviluppo di un’unica struttura con due ali simmetriche che si spiegano da entrambi i lati. Una particolarità di questo progetto è l’esistenza di una doppia cucina alle due estremità.
Un progetto che ha riconsegnato alla storia un luogo dove famiglia e amici si ritrovano per condividere il cibo. E’ certamente un buon viatico per scrivere un libro di ricette e fare della cucina il cuore caldo e palpitante dell’intero edificio.
La casa si compone, inoltre, di uno studio e una biblioteca al primo piano, tre camere da letto con bagno al secondo e una dependance su due piani ricavata da una stalla ristrutturata,
Esiste una giusta simmetria nell’ordine degli ambienti – dichiara il progettista: “Cucina, sala da pranzo, living; living, sala da pranzo, cucina”. L’elegante struttura organica, allungata, della casa è amplificata dalla galleria che collega gli edifici conferendo un senso di continuum.
Grande protagonista sua maestà il legno di olmo per il pavimento al piano superiore, mentre il resto della pavimentazione si veste di un cemento dall’effetto industriale con screpolature che lo rendono vissuto. Le pareti che si riflettono sulla superficie orizzontale sono state trattate con tradizionale intonaco a calce, marmo bianco delle Dolomiti per mensole, piani dei tavoli e dei bagni. Nello studio di Catherine, al pian terreno, c’è uno spazio di lettura con libreria, alcuni elementi di arredo firmati Kjaerholm, Judd, Pawson e, curioso, un divano svedese del Settecento.
“Le colonne, le travi e le assi del pavimento originali di questa casa sono tutte in legno di olmo, quindi per la cucina e le credenze abbiamo cercato di utilizzare lo stesso legno. L’olmo una volta era un materiale da costruzione comune” ricorda l’architetto.
Qui, orfana del dinamismo isterico dei ritmi londinesi, la coppia vive la dimensione del “temps retrouvé” in questa poetica casa-fattoria con giardino; un luogo in cui riconnettersi con se stessi in armonia con il passato e il presente della natura circostante.
Assorbire la storia per un risultato senza tempo
La forza di questa dimora disegnata “su misura” è il suo essere parte di secoli di storia che sussurrano la loro presenza da ogni angolo. Una testimonianza solida, reale, concreta che permette di ricordare i tempi passati e la vita in campagna, fino a oggi: “è un po’ come vedere una leggenda popolare diventare realtà”.
Guardando la vista lungo la collina a ovest, dove un elegante fiume scorre attraverso il paesaggio, Pawson contempla il paesaggio.
“Ogni volta che iniziamo un nuovo progetto, che sia una nuova costruzione o una ristrutturazione, conduciamo ricerche sull’intera area, dagli edifici locali e la vegetazione alla topografia. Abbiamo fatto lo stesso con questa casa, leggendo tutto il possibile sulla sua storia e, in un certo senso, abbiamo ignorato tutto ciò che abbiamo trovato. Per quanto sia importante assorbire tutte queste informazioni storiche, non puoi lasciare che ti leghino le mani.
I progetti devono partire da me e devono essere contemporanei e moderni. Detto ciò, abbiamo preso tutte le decisioni più importanti con la massima cura, passo dopo passo. Volevamo che questo design potesse durare nel tempo, che potesse essere utilizzato e goduto per generazioni. L’idea non è quella di creare qualcosa che sia vistoso e alla moda, ma un progetto onesto e di alta qualità che duri nel tempo”.
Le lampade disegnate da Pawson dondolano dalle maestose travi, sotto le quali si distende un lungo tavolo dalle movenzi rettangolari di oltre tre metri (proporzionate alle dimensioni delle grandi vetrate) e coronato da una serie di sedie Tacta – in legno magistralmente curavato – disegnate per l’azienda italiana Passoni.
Secondo Pawson, la storia merita sì di essere celebrata, ma non tutti gli oggetti vecchi dovrebbero essere preservati solo perché sono vecchi. Non bisogna incapsulare lo stile, ma preservare ciò che ha un valore duraturo per il nostro patrimonio culturale. Si tratta di salvaguardare ciò che funziona ed eliminare il resto, fulcro della celeberrima equazione “less is more”, fondamento del minimalismo. Ma quindi, cosa fa un architetto così fermamente devoto all’eliminazione dei dettagli in eccesso e a confrontarsi con la storia basandosi sull’idea che i suoi edifici verranno utilizzati dalle future generazioni?
“Dipende davvero da cosa vogliono fare i clienti, nonostante l’obiettivo di tutti i miei progetti sia l’essere senza tempo. Tutto ciò che posso fare è dare il meglio. La mia speranza è che, anche dopo anni di utilizzo, i miei edifici non diventino obsoleti, ma continuino a essere rilevanti e apprezzati dalle generazioni future…”.
Poeta della luce, (cosa c’è di più eterno e aionico) da sempre John Pawson punta all’essenza della forma conciliando il vero rigore British ed essenzialità zen in equilibrio tra minimalismo e monachesimo.
In lui architettura e fotografia sembrano fondersi in un unico linguaggio simbolico:
«Entrambe nascono dalla luce, ma la foto serve al mio lavoro, per annotare e registrare ciò che mi serve» ha dichiarato John. Cosa ci riserverà in futuro il serafico maestro?
Fonti:
John Pawson, Making Life Simpler di Deyan Sudjic (Autore) Phaidon Press Ltd, 2023
Home Farm Cooking, Phaidon 2021
Fonte: Firenze Architettura ISSN 2035-4444 (online) © The Author(s) 2022. Firenze University Pressì
Seguici sui nostri canali per restare sempre aggiornato: