Il design come madeleine. Il titolo è scritto tutto in lettere minuscole, con discrezione, senza alzare la voce, come Kerouac, citato: “Che attraversò gli Stati Uniti sulla Route 66 in scarpe da ginnastica perché non voleva fare rumore”. E forse al titolo bisognerebbe aggiungere: “trentatré piccole storie di design (che sono pezzi di me)”. Una storia personale filtrata dagli oggetti che Luciano Galimberti ha via via incontrato, acquistato, usato: dalle magie dell’infanzia alle sicurezze della professione, perché “Un oggetto – osserva Francesco Zurlo nella prefazione – si carica di energia psichica, affettiva, culturale, quando ci dà una buona esperienza, quando riesce a costruire un senso, giocando tra tensioni individuali, intime e personali, ma confrontandosi con il sistema simbolico all’interno del quale quella cosa vive”.
Già il numero è una dichiarazione: dagli anni di Cristo alle vertebre della spina dorsale, al numero di anni della attività di designer dell’autore, oggi presidente dell’ADI Associazione per il Disegno Industriale, che rivela: “Ho cercato di valorizzare la memoria cercando di allontanarmi sempre dalla nostalgia”. Nel volume si allineano così (per citarne alcuni, in ordine di produzione ma non di incontri di vita) arredi e oggetti italianissimi (il superlativo è d’obbligo trattandosi di capolavori del Made in Italy) e internazionali, a partire dalla celebre poltroncina 209 di Thonet passando per il Meccano, il sorprendente Bacio Perugina (“Il primo vero esempio di food design italiano” con i suoi indimenticabili messaggini interni su carta velina), il telefono Grillo, il motorino Ciao della Piaggio, la “seduta” Sacco di Zanotta (“Pochi oggetti nella storia del design hanno avuto davvero la forza di scardinare la consuetudine d’uso dettata dal rapporto forma-funzione”), la lampada Parentesi, il Mac di Apple (“Che mi ha fatto capire che la leadership del progetto non è garantita da alcun ruolo predefinito, bensì va conquistata quotidianamente attorno al tavolo delle competenze coinvolte”), il tavolo Nomos di Tecno.
Ci sono, inevitabilmente, momenti di gioia “Da bambino, l’oblò della lavatrice era l’oblò della mia astronave da dove vedevo spazi oscuri e vortici galattici” e momenti di dolore “Non so che forma lascino le lacrime sul Corten ma sono certo che non sfigurerebbero nel campionario di una vita raccontata per impronte” e, tra le pagine, anche piccole ossessioni: “Noi progettisti in cerca di responsabilità civili e professionali” e sorprendenti interpretazioni: “Il tavolino con ruote di Fontana Arte rappresenta nelle intenzioni della designer che lo ha firmato la borghesia sostenuta dal proletariato urbano, rappresentato a sua volta dalle solide ruote di derivazione industriale”.
Sarebbe interessante mettere a confronto questo testo di Luciano Galimberti con altri due recenti saggi sul design che abbiamo già recensito in queste pagine: “Dieci splendidi oggetti morti” di Massimo Mantellini” e Icone. Mito, storie e personaggi del design italiano” di Giovanna Mancini. I primi due hanno nella memoria la chiave di lettura dei testi: Galimberti più intima, Mantellini più oggettiva, mentre “Icone” fotografa la contemporaneità (o almeno una parte della contemporaneità) attraverso gli incontri con i produttori e i capitani che fecero l’impresa del Made in Italy. Ci sono più storie nel design di quante non ne sogni la filosofia.TWITTA:
Luciano Galimberti
trentatré piccole storie di design
Electa, 2021
pp. 160
Isbn 9788892821446
di Danilo Premoli – Office Observer
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