Le parole del foglio stampato vengono guardate, non udite. El Lissitzky, 1923
Introdotti da Riccardo Falcinelli, i quaranta testi (alcuni tradotti per la prima volta) raccolti sotto il titolo “Filosofia del graphic design” tracciano uno strepitoso percorso culturale e progettuale che a partire da William Morris vede tra i protagonisti, per citarne alcuni: Filippo Tommaso Marinetti, László Moholy-Nagy, Vasilji Kandinskij, El Lissitzky, Fortunato Depero, Paul Rand (suo il manifesto del film No Way Out, 1950, cover del volume), Albe Steiner, Bruno Munari. Che professione meravigliosa: dal packaging ai prodotti, dalla segnaletica all’editoria, dalla pubblicità alle etichette del vino, dal reale al digitale. Un “potere” non soltanto estetico e critico, ma (soprattutto?) politico.
Con l’inizio del Novecento, emerge una serie di problemi che caratterizzeranno il dibattito a seguire: qual è il potere reale del graphic design nella società di massa? Si tratta di un mero servizio o di un’opera di ingegno? E il grafico è un tecnico, un professionista o un autore? Se pittura, architettura, musica e teatro avevano da tempo i loro trattati e la loro pubblicistica, con l’inizio del secolo anche la grafica diventa un “oggetto” culturale, qualcosa di cui scrivere e discutere anche al di fuori di una ristretta cerchia di tecnici e di appassionati. Ancora negli anni Sessanta, negli Stati Uniti, la maggior parte dei corsi di grafica si chiamava comunemente commercial art, definizione protomoderna che coniuga le istanze artistiche con quelle dell’industria. È Yale la prima scuola in cui si inaugura un corso universitario di graphic design, nel 1951; ed è qui che Josef Albers mette a punto la didattica che aveva conosciuto al Bauhaus formulando la sua teoria del colore.
Riccardo Falcinelli, tra i più apprezzati graphic designer italiani, che ha già firmato per la stessa Einaudi la trilogia “Critica portatile al visual design” (2014), “Cromorama” (2017), “Figure” (2020), precisa nell’introduzione: “La nascita del grafico come mestiere è la conseguenza dello staccarsi delle mansioni ideative dai compiti della tipografia, scorporando il progettista dallo stampatore, con una distanza simile a quella che separava da secoli l’architetto dal muratore […] Questo sentirsi un po’ pensatori e un po’ operai, questo muoversi fra teoria e mestiere, è una delle cifre più significative dell’idea di grafico formulata dalla cultura modernista”.
E oggi? Siamo tutti graphic designer (poi ce n’è qualcuno bravo!) perché da quando il computer ha distribuito a tutti mezzi e tecnologia per produrre e far circolare testi e immagini (tutti, o quasi, sanno comporre un foglio in Word), non è facile definire chi è designer e chi no. “Nel XX secolo a essere coinvolte nel campo della grafica – precisa l’autore – sono state davvero le figure più varie: dai pubblicitari agli intellettuali, dagli artisti agli educatori”. Una cosa accomuna i diversi autori dei testi selezionati in questo libro: rivelare, attraverso il discorso sulla grafica, una visione del mondo o un modo di sentire la vita. “Non si tratta perciò di saggi tecnici o critici, ma di poetiche, proponimenti, previsioni, manifesti, dichiarazioni di intenti, proclami e pure, perché no, di chiamate alle armi”.
Il compito della grafica dunque va ben oltre il semplice abbellimento del testo: la grafica articola il pensiero. Ad esempio, per le avanguardie gli stampati non sono veicoli o strumenti, sono essi stessi “opere”, tanto che, come ha notato Richard Hollis, celebre graphic designer inglese: “Il graphic design è stato un’invenzione più dei dadaisti che degli industriali” e a questi aggiungiamo il costruttivismo russo, il gruppo De Stijl e il Bauhaus, con il tutto-minuscolo di Herbert Bayer, molto amato dall’International Style e dalla scuola svizzera (ma anche oggi: pensiamo al logo di facebook, rigorosamente tutto minuscolo).
Poi arriva l’invadente PC (e di seguito i social network) e per il graphic design si apre un’altra storia: “La domanda che oggi si pongono in tanti è chiara: nella grafica si deve vedere che qualcosa è realizzato al computer? La tecnologia deve essere esibita? E se sì, perché?”. Ma soprattutto: nella grafica chi è che parla: il committente o il designer?
TWITTA:
Riccardo Falcinelli
Filosofia del graphic design
Einaudi, 2022
pp. LXXXIV – 396
Isbn 9788806252281
di Danilo Premoli – Office Observer
Leggi anche le recensioni di:
Graham Harman: Ontologia Orientata agli Oggetti
Elogio della rilettura, Edgar Allan Poe: La Filosofia dell’Arredamento
R. Buckminster Fuller: Manuale operativo per Nave Spaziale Terra
Filippo Poletti: Grammatica del nuovo mondo
Giorgio Scianca: Quo vadis architetto
Introdotti da Riccardo Falcinelli, i quaranta testi (alcuni tradotti per la prima volta) raccolti sotto il titolo “Filosofia del graphic design” tracciano uno strepitoso percorso culturale e progettuale che a partire da William Morris vede tra i protagonisti, per citarne alcuni: Filippo Tommaso Marinetti, László Moholy-Nagy, Vasilji Kandinskij, El Lissitzky, Fortunato Depero, Paul Rand (suo il manifesto del film No Way Out, 1950, cover del volume), Albe Steiner, Bruno Munari. Che professione meravigliosa: dal packaging ai prodotti, dalla segnaletica all’editoria, dalla pubblicità alle etichette del vino, dal reale al digitale. Un “potere” non soltanto estetico e critico, ma (soprattutto?) politico.
Con l’inizio del Novecento, emerge una serie di problemi che caratterizzeranno il dibattito a seguire: qual è il potere reale del graphic design nella società di massa? Si tratta di un mero servizio o di un’opera di ingegno? E il grafico è un tecnico, un professionista o un autore? Se pittura, architettura, musica e teatro avevano da tempo i loro trattati e la loro pubblicistica, con l’inizio del secolo anche la grafica diventa un “oggetto” culturale, qualcosa di cui scrivere e discutere anche al di fuori di una ristretta cerchia di tecnici e di appassionati. Ancora negli anni Sessanta, negli Stati Uniti, la maggior parte dei corsi di grafica si chiamava comunemente commercial art, definizione protomoderna che coniuga le istanze artistiche con quelle dell’industria. È Yale la prima scuola in cui si inaugura un corso universitario di graphic design, nel 1951; ed è qui che Josef Albers mette a punto la didattica che aveva conosciuto al Bauhaus formulando la sua teoria del colore.
Riccardo Falcinelli, tra i più apprezzati graphic designer italiani, che ha già firmato per la stessa Einaudi la trilogia “Critica portatile al visual design” (2014), “Cromorama” (2017), “Figure” (2020), precisa nell’introduzione: “La nascita del grafico come mestiere è la conseguenza dello staccarsi delle mansioni ideative dai compiti della tipografia, scorporando il progettista dallo stampatore, con una distanza simile a quella che separava da secoli l’architetto dal muratore […] Questo sentirsi un po’ pensatori e un po’ operai, questo muoversi fra teoria e mestiere, è una delle cifre più significative dell’idea di grafico formulata dalla cultura modernista”.
E oggi? Siamo tutti graphic designer (poi ce n’è qualcuno bravo!) perché da quando il computer ha distribuito a tutti mezzi e tecnologia per produrre e far circolare testi e immagini (tutti, o quasi, sanno comporre un foglio in Word), non è facile definire chi è designer e chi no. “Nel XX secolo a essere coinvolte nel campo della grafica – precisa l’autore – sono state davvero le figure più varie: dai pubblicitari agli intellettuali, dagli artisti agli educatori”. Una cosa accomuna i diversi autori dei testi selezionati in questo libro: rivelare, attraverso il discorso sulla grafica, una visione del mondo o un modo di sentire la vita. “Non si tratta perciò di saggi tecnici o critici, ma di poetiche, proponimenti, previsioni, manifesti, dichiarazioni di intenti, proclami e pure, perché no, di chiamate alle armi”.
Il compito della grafica dunque va ben oltre il semplice abbellimento del testo: la grafica articola il pensiero. Ad esempio, per le avanguardie gli stampati non sono veicoli o strumenti, sono essi stessi “opere”, tanto che, come ha notato Richard Hollis, celebre graphic designer inglese: “Il graphic design è stato un’invenzione più dei dadaisti che degli industriali” e a questi aggiungiamo il costruttivismo russo, il gruppo De Stijl e il Bauhaus, con il tutto-minuscolo di Herbert Bayer, molto amato dall’International Style e dalla scuola svizzera (ma anche oggi: pensiamo al logo di facebook, rigorosamente tutto minuscolo).
Poi arriva l’invadente PC (e di seguito i social network) e per il graphic design si apre un’altra storia: “La domanda che oggi si pongono in tanti è chiara: nella grafica si deve vedere che qualcosa è realizzato al computer? La tecnologia deve essere esibita? E se sì, perché?”. Ma soprattutto: nella grafica chi è che parla: il committente o il designer?
TWITTA:
Riccardo Falcinelli
Filosofia del graphic design
Einaudi, 2022
pp. LXXXIV – 396
Isbn 9788806252281
di Danilo Premoli – Office Observer
Leggi anche le recensioni di:
Graham Harman: Ontologia Orientata agli Oggetti
Elogio della rilettura, Edgar Allan Poe: La Filosofia dell’Arredamento
R. Buckminster Fuller: Manuale operativo per Nave Spaziale Terra
Filippo Poletti: Grammatica del nuovo mondo
Giorgio Scianca: Quo vadis architetto
Seguici sui nostri canali per restare sempre aggiornato: