“Aureliano, sa cosa sono i wormholes? Ponti di Einstein-Rosen? Lei è ingegnere, dovrebbe saperlo. O si occupa solo di arboricultura? Non mi pareva, dai suoi discorsi…” disse Marc Sadler all’ingegner Camelia, che era venuto a trovarlo a Milano per un progetto.
Era venerdì pomeriggio, erano un po’ stanchi della settimana di lavoro, ma l’incontro serviva a definire gli ultimi dettagli del prodotto. Aureliano fu stupito dal detour della conversazione, visto che fino a un attimo prima parlavano di tagli, spessori e incastri.
“No, non mi occupo solo di arboricoltura. Ricorda che mi sono divertito anche a raccontare in un libretto una storia di famiglie imperiali…? Comunque no, non so cos’è un ponte di Einstein-Rosen.”
“Bene, allora provo a spiegarglielo – anche se non sono sicuro di aver capito bene come funziona…“
“Andrà benissimo, sempre meglio dell’ignoranza.” “Ignoranza… non esageri. Di cunicoli spazio-temporali sicuramente avrà sentito parlare.”
“Sicuramente. Al cinema.” non potè evitare di dire, sorridendo, Aureliano: “Il film si chiamava Interstellar, qualcosa del genere: con quel bravo attore dal cognome impronunciabile”
“Matthew McConaughey. “disse Sadler, pronunciando perfettamente in inglese il cognome dell’attore.
Aureliano sorrise ancora: “Comunque il film ha già tre o quattro anni. E ancora non mi è capitato di parlare con mia figlia dalla quarta dimensione, smuovendo i libri nella biblioteca…”
“Non ne sia così sicuro, ingegnere. Siamo nel 2018, ormai: prima o poi ci arriveremo”
“Mi interessa poco la fantascienza”
“Forse dovrebbe interessarla di più. Insomma, non provo neanche a spiegarle la teoria – perché non la so – ma le conclusioni sono interessanti. Praticamente un ponte di Einstein-Rosen è un wormhole – letteralmente, un buco di verme: cioè, una “scorciatoia” tra un punto e un altro dell’universo, la strada che farebbe un bruco immaginario che attraversa la terra come fosse una mela, invece che percorrerla in superficie. Il wormhole permetterebbe di percorrere una distanza qualunque nello spazio curvo: in un tempo non istantaneo ma infinitamente inferiore a quello che impiega la luce attraverso lo “spazio normale”, ossia senza scorciatoie.
In parole complicate: un wormhole è una caratteristica topologica dello spazio-tempo.
“E dove sarebbero nello spazio questi wormholes?”
“Finora gli scienziati non ne hanno trovati nell’Universo “visibile”, diciamo così. Però nel 2016, a Napoli, dei ricercatori dell’Università Federico Secondo – tra cui un italiano, Capozziello, hanno provato a realizzare un prototipo, o meglio un modello di ponte Einstein-Rosen. Ci sono riusciti e hanno scoperto – componendo due fogli di grafene e un nanotubo – che il ponte, o qualcosa di simile, si poteva costruire.”
“Molto interessante. E sa com’era fatto quel modello?
Hanno poi trasportato qualcosa?”
“Un po’ difficile. Intanto è molto piccolo, circa un millimetro. E hanno scoperto solo che in presenza di certe anomalie, nel ponte si generavano delle correnti elettriche: ma soprattutto, dopo la pubblicazione dell’esperimento sull’International Journal of Modern Physics, non se n’è saputo più niente.”
“Sì, forse devo aver letto qualcosa sul Corriere, all’epoca…” disse Aureliano, che non capiva ancora la ragione del discorso. Vedeva però l’esitazione negli occhi grigio-azzurri di Sadler, come se faticasse a continuare: così riempì brevemente il silenzio che segnava l’attesa di una vera notizia.
“Insomma, riprese Sadler “proprio nulla no… Con Capozziello poi ho parlato, a Napoli, e mi ha spiegato come avevano costruito il ponte.”
“Avete anche provato a ripetere l’esperimento? Che risultati ha dato? ”
“Adesso non mi faccia troppe domande, ingegnere: specialmente quelle a cui non posso rispondere.”
“Non può? Almeno mi dica se avete rifatto l’esperimento.” “Troppo curioso, ingegnere. No, non posso dirglielo: ma anche lei è un creativo, ha fantasia. Provi a immaginare. La realtà è fatta soprattutto d’immaginazione. Anzi, secondo certe teorie, o filosofie, la realtà non esiste proprio: ma io non sono un filosofo, sono un designer. Faccio oggetti reali, o meglio li penso e li progetto. Poi persone come lei li realizzano.”
Aureliano sentiva parlare Sadler, cercava di seguirlo nel suo ragionamento ma alla parola “fantasia” si sentiva già altrove.
Era sempre a Milano, ma non nello stesso giorno in cui era sceso dal FrecciaRossa delle 5.13. Era ancora autunno inoltrato, quasi sera, ma non si trovava più nello studio: stava camminando fuori, in una nebbia mai vista così spessa negli ultimi anni. Non che gli dispiacesse quell’odore pungente, la sensazione di minutissime goccioline sul viso: gli rinfrescava letteralmente le idee, mentre a piedi, con lunghe falcate andava spedito verso la stazione. Nella nebbia persone e palazzi gli apparivano confusi, diversi da come era abituato a vederli. Le silhouette delle donne con gonne curiosamente abbondanti, uomini tutti con cappelli dalle fogge antiquate.
Dimenticato Sadler – che però continuava a raccontare del suo incontro con Capozziello – Aureliano iniziava a pensare che girassero scene di strada per un film in costume, quando si ritrovò in Largo Treves: che però riconosceva a stento.
Su una targa si leggeva a lettere sbiadite “Largo Notari già P.za Statuto” e all’angolo con Via Palermo non c’era più l’orrido palazzo per uffici del Comune di Milano, color Fleischkäse: una specie di mortadella tedesca, parallelepipeda e senza lardo, da cui il dispregiativo che usano a Zurigo per l’estensione moderna della Opernhaus (il teatro dell’Opera).
Al posto dell’enorme Fleischkäse comunale, stava l’edificio neorinascimentale della prima Università Luigi Bocconi: semplice ma non austero, con soli tre piani.
Per vederlo meglio Aureliano si spostò sull’angolo di Via Solferino
verso via Brera e per un soffio non fu investito dal tram che gli
arrivava alle spalle. La testa iniziò a girargli, ondeggiò un istante,
dovette appoggiarsi all’unico albero della piazza e gli sembrò che anche la nebbia gli fosse entrata negli occhi a confondergli la vista.
Una giovane passante bionda, elegantissima in un abito nero
un po’ eccentrico che ricordava quello di Enrichetta Allegri ritratta da Giovanni Boldini, si fermò e gli chiese se avesse bisogno di aiuto. “Signora, è davvero molto gentile ma non si preoccupi, sto bene.” rispose Aureliano, allontanandosi dall’albero con la calma di sempre e solo un leggero imbarazzo per essersi comportato così stranamente.
“Ma Signore, lei è vestito molto leggero, non ha neanche il cappello! Con questa nebbia, e questo freddo… Mi permetta d’insistere, si riscaldi un momento.” Aggiunse la bella signora in un italiano senza nessuna inflessione milanese, ma con un lievissimo accento parigino. “Abitiamo proprio qui di fronte” disse indicando un bel palazzo borghese sul lato opposto della piazza, tra via Statuto e Via Solferino nel tratto del Corriere della Sera.
Più per educazione che altro, Aureliano si fece convincere. Attraversarono con prudenza, schivando i tram che continuavano a sferragliare avanti e indietro (semafori non ce n’erano) ed entrarono nel vasto ingresso del palazzo: a destra e sinistra due grandi scale in marmo per l’accesso ai piani, e nella corte, sul fondo, chiuse da porte in legno, le rimesse per le carrozze. C’erano anche dei radiatori alle pareti, nascosti dietro grate in ottone traforato, e Aureliano si sentì meglio, quasi a casa per la sensazione di déjà vu che ebbe scaldandosi alla nuova, confortevole temperatura.
Anche nell’ora tarda, con la nebbia fuori dal palazzo che continuava ad addensarsi e arrivava fin nella corte, il riflesso della luna già alta illuminava di azzurrino tutto l’ingresso – dove non erano ancora accese le lampade elettriche. Aureliano riuscì così a distinguere la pavimentazione insolita, che non aveva notato subito, distratto dalla voce della signora che gli spiegava come il palazzo intero fosse stato costruito da e per la sua famiglia.
“Lei è ingegnere, apprezzerà l’impegno che è stato messo in questa costruzione”, disse fiera la giovane, socchiudendo leggermente
gli occhi che aveva di uno strano colore grigio azzurro.
Saltando la prima domanda che gli veniva in mente (come sapeva la sua professione, la signora mai vista?), Aureliano si mise a lodare la qualità dell’impianto spaziale, la bontà dell’esecuzione e l’originalità di certe soluzioni.
Non era esattamente un esperto di architettura fin de siècle ma assecondare il racconto della giovane gli serviva ad osservare intanto meglio quello che per lei era forse meno importante. Tutto l’ingresso, fino agli accessi alle scale, era pavimentato con blocchetti di legno di rovere posati di testa – una soluzione abbastanza comune un tempo in fabbriche e laboratori, ma che Aureliano non aveva ancora mai visto all’interno di una casa: o meglio, un semi-interno come si poteva considerare quell’enorme ingresso, che era progettato come spazio di distribuzione, ma anche di rappresentanza e – in un certo senso – come ambiente abitabile. Così abitabile che quella pavimentazione fece venire in mente ad Aureliano la sua fabbrica e le sue possibilità.
“Perché non realizzare un pavimento da interni con queste caratteristiche?” si stava chiedendo, quando – proprio come se fossero in casa – la signora lo invitò ad accomodarsi su una delle panchine in quercia, dalle forme vagamente Liberty, che stavano agli angoli del grande ingresso.
Aureliano ringraziò mentalmente l’architetto che le aveva fatte
realizzare in legno invece del marmo, gelido ma sempre preferito
dalla borghesia, come simbolo inequivocabile di ricchezza e permanenza delle loro fortune. Stava già immaginando un progettista populista e magari socialista, che avesse sposato le teorie di William Morris e aspirasse a una trasformazione del gusto borghese “dall’interno”, rivalutando il lavoro artigiano e le esecuzioni manuali… quando lo riportò alla realtà la voce
della giovane. Lo vedeva ancora scosso e fermò la descrizione
di materiali e soluzioni costruttive dell’edificio, per chiedergli
come si sentiva.
“Ma è proprio sicuro di star bene, ingegnere? Ha il viso un po’ pallido. Ingegner…? Non so neanche il suo nome, mi scusi.
Il mio è Veronica: Veronica Sellier. Sellier, con l’accento sulla seconda e.” “Molto piacere, Veronica. Il mio nome è Aureliano: Aureliano Camelia. E di professione sono ingegnere.”
“Questo però lei già lo sapeva” aggiunse sorridendo, mentre si alzava lentamente dalla panchina. “Purtroppo, signora, si è fatto davvero tardi. Désolée, ma devo proprio andare: mi aspetta una persona per una riunione di lavoro. La ringrazio della gentilezza e di avermi fatto conoscere questo bellissimo palazzo.”
“È tutto mio il piacere, ingegner Camelia. Se passa ancora da Milano, perché non viene a trovarci? Potrebbe fermarsi per un tè, visitare anche l’abitazione: è molto luminosa e ariosa, sono sicura che le piacerebbe. Basta che si annunci in portineria, siamo quasi sempre a casa e riceviamo spesso. Mio marito qui ha anche lo studio, proprio là, al piano rialzato.”
E, ancora seduta, con lo sguardo accennò a una grande porta vetrata, a cui portavano tre bassi gradini in marmo rosso di Verona. I vetri erano sabbiati con dei curiosi motivi a guilloche, che ad Aureliano sembrarono contenere simboli massonici.
“È anche lui ingegnere, sa? Pensi che combinazione…” sorrise ancora la signora, fissandolo negli occhi. Aureliano ringraziò, promise, abbozzò un inchino, non si tolse il cappello perché non lo aveva e quasi arretrando si diresse verso il portone, alto e pesante, che gli teneva aperto un domestico comparso dal nulla. “Si ricordi, ingegnere: Sellier, famiglia Sellier! ” gli ripeté da lontano Veronica, con voce più alta, accennando leggermente un saluto con la mano destra inguantata di nero.
Uscendo dal palazzo, Aureliano si ritrovò direttamente sulla via del complesso di loft dove aveva studio Sadler. Non c’erano tram, né carrozze come in largo Treves ex-Morani, solo file di auto parcheggiate lungo i marciapiedi: una cacocromia di lamiere verniciate che gli diede un brivido di freddo, dopo il conforto di casa Sellier e – doveva ammetterlo – del calore che emanava la giovane dagli occhi grigio azzurri.
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La sera stava appena per diventare notte, così Camelia rinunciò ai calcoli mentali su quanto tempo era stato altrove. Si affrettò a raggiungere il loft di Sadler, bussò leggermente e schiuse piano la porta, mettendo dentro prima scherzosamente la testa. Sadler era seduto alla scrivania e leggeva, ma si accorse di lui, si voltò e lo guardò con un’espressione tra il sorpreso e il divertito.
“Ah, le voilà l’ingegnere! Ce ne ha messo di tempo per quella commissione.” gli disse sorridendo. “Scusi Sadler, anche una telefonata urgente… mi ha trattenuto un po’ a lungo” disse Aureliano andando verso la scrivania. “Un po’ a lungo? È uscito da qui un anno fa!” scoppiò a ridere Sadler.
A guardarlo meglio, aveva un aspetto diverso: le sopracciglia leggermente più bianche, un altro taglio di capelli e sopra la camicia portava un cardigan ben chiuso da una zip.
Sadler notò che Aureliano fissava proprio il cardigan, e precisò: “Paola insiste. Io avrei anche caldo, ma mi dice di tenerlo chiuso. Chissà perché, poi.”
“Si sieda, ingegnere” continuò “La vedo un po’ stanco. Sembra arrivare da un altro mondo.” continuò Sadler.
“Un anno è tanto.” riuscì a dire finalmente Aureliano.
“È proprio sicuro, Marc ? ”
“Guardi il calendario, qui sulla parete. Vede? È Halloween oggi: ma del 2019.”
“Dev’essere stato il ponte di Einstein-Rosen” rispose scherzoso l’ingegnere, cercando di prender tempo per trovare una spiegazione di cos’era successo, ma che naturalmente non aveva. Sadler, sempre lucido e logico, non raccolse e iniziò a raccontare quello che sapeva. “Comunque non deve preoccuparsi troppo”aggiunse Sadler “Non se ne è accorto quasi nessuno.”
“Come, Marc? In azienda se ne saranno accorti per forza.“
“Per tutto l’anno, hanno continuato ad arrivare e-mail e messaggi, sia in azienda che a sua figlia, dove spiegava di aver bisogno di un sabbatico. Ogni tanto ha mandato anche delle foto, la si vedeva in diverse città: soprattutto a Milano e Parigi.” “Davvero?”
“Davvero. Le foto le mandava lei, del resto: sembrava anche molto felice.”
“Beh, sì. Avevo conosciuto – glielo dico in confidenza, da amico – una persona con cui mi trovavo molto bene…”
“Ah, dimenticavo.” lo interruppe Sadler “In azienda abbiamo realizzato anche questo, che non ha ancora visto dal vero.”
E gli mostrò un bel campione di parquet ancora odoroso di betulla, con la vena di rivestimento in legno nobile messa di testa, a formare una specie di morbido tappeto.
“Pare morbido, all’occhio e al tatto, è lo è: ma è anche resistentissimo.”
Precisò Sadler.
“Sì, ma… Come avete fatto?” esclamò Aureliano allibito.
“Non avevamo neanche parlato di questo, stavamo lavorando su un altro progetto…”
“Certo, ma non si ricorda lo scambio di e-mail che abbiamo poi avuto?”
“Quali e-mail…”
“Quelle in cui le ho proposto di passare a questa nuova idea. Non ricorda?”
“Beh sì, sì…”
“Ha scritto che anche lei aveva pensato qualcosa del genere.” “Certo certo, se l’ho scritto…”
“Davvero Aureliano, non vuole bere qualcosa? Un whisky, un cognac? Ne ho di molto buoni qui in studio.“
“No, grazie. Quindi senza me presente siete riusciti… ad arrivare al prototipo?”
“Che prototipo? Ma, no, questa è una campionatura, il prodotto è già distribuito da qualche mese. E va anche molto bene!” sorrise Marc, soddisfatto del risultato anche economico del progetto.
“D’altra parte Aureliano, lei sa benissimo che il mio lavoro è un po’ diverso da quello di altri designer. Non mi fermo mai al solo disegno, anche se amo molto disegnare, ma trovo altri materiali, convinco i produttori a sperimentare tecniche nuove: e poi porto il progetto alla realizzazione completa, come ho fatto anche da solo, per tanti anni, nel campo delle attrezzature sportive.”
“Allora è stato facile arrivare al prodotto.”
“Non facilissimo. I suoi tecnici sono straordinari, ma lei ogni tanto
spariva. Però ci siamo abituati, anche perché quando rispondeva
dava sempre indicazioni utilissime.”
“Mi lusinga, Marc, ho sempre pensato che un produttore deve
anche fare molta vita di fabbrica… E invece, ce l’avete fatta anche 11 con questa distanza siderale tra noi.”
“Infatti, questo prodotto si chiama Fabrique!” disse forte Sadler
“Pourqoui vous etait pas à la fabrique!”scherzò, per rompere
un po’ la tensione della serata.
Aureliano continuava a rigirarsi il campione tra le mani: era davvero perfetto, non si stupì che avesse molto successo. Era il genere di prodotto di cui andava fiero, che lo convinceva di essere sulla strada giusta, come imprenditore e come “demiurgo” di idee nate dai suoi designer. Gli restava solo una curiosità. “Scusi, Marc, questa è la sera delle domande strane, ma le prometto: è l’ultima. Per caso, esiste un ramo della sua famiglia, anche in passato, col nome Sellier?“
“Che domande, Aureliano. Le va di scherzare, mi prende un po’ in giro? Sellier è la traduzione francese di Saddler, sellaio, artigiano del cuoio… E va bene, certo, Nomen Est Omen. Sadler quasi sicuramente deriva da Saddler. Sono nato a Parigi, ero appassionato di arti e disegno già da bambino. E con questo mestiere ho a che fare anche con artigiani, le loro tecniche, i loro materiali. Ma a pensarci bene, semmai ho alleggerito di lavoro qualche artigiano…” sorrise ironico “Visto che sono stato il primo a disegnare uno scarpone da sci in resina poliuretanica interamente riciclabile: all’inizio degli anni Settanta, quando erano ancora in cuoio…”
S’interruppe, rifletteva sulla domanda. Poi riprese:
“Pensavo a quanti posti ho vissuto, per il mio lavoro: Parigi, Venezia, New York… E adesso, da tanti anni, Milano.
Eppure non ho mai incontrato nessuno con quel cognome neppure ne ho avuto notizia da parenti e amici. No, i Sadler – che io sappia – non hanno proprio nessuna parentela con nessuna famiglia Sellier.”
Mentre Sadler gli dava la risposta che già si aspettava, con la coda dell’occhio Aureliano aveva intravisto in un angolo dello studio, affollato di oggetti, una specie di poltrona blu elettrico, in un materiale sconosciuto e dalla forma molto curiosa: ricordava vagamente un ponte di Einstein Rosen.
Si voltò a guardare Marc negli occhi ancora una volta: avevano quasi lo stesso colore di quelli della signora di Milano (o forse di Parigi?) che sembrava uscita da un quadro di Boldini.
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